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Ilva di Taranto, chi e perché trama contro ArcelorMittal

Nei giorni scorsi il vertice di ArcelorMittal Italia ha annunciato la messa in cassa integrazione ordinaria per tre mesi dal 1° luglio prossimo sino ad un massimo di 1.395 unità delle 8.250 assunte nel Siderurgico di Taranto, le cui produzioni sono colpite, da un lato, da un forte rallentamento della domanda in Italia e in Europa e, dall’altro, dalla crescente invasione nei primi mesi dell’anno di beni provenienti da Paesi extracomunitari, nonostante le misure assunte dalle Autorità di Bruxelles finalizzate a proteggere almeno nelle intenzioni la siderurgia dell’Unione Europea. I dirigenti della multinazionale peraltro – che già avevano dichiarato alcune settimane orsono che quest’anno non sarebbe stato possibile raggiungere l’obiettivo inizialmente previsto di 6 milioni di tonnellate di acciaio colato – hanno confermato la prosecuzione degli interventi di ambientalizzazione del sito, primo fra tutti quello imponente della copertura del parco minerali.

“GUERRA TOTALE”

Alla notizia, i sindacati di categoria hanno abbandonato il tavolo della trattativa, chiedendo un intervento del ministro Di Maio a garanzia degli accordi del 6 settembre dello scorso anno che portarono alla sottoscrizione del verbale con le clausole previste per il trasferimento del Gruppo Ilva alla nuova proprietà.

Alla dura posizione dei sindacati si è aggiunta quella di altri osservatori che hanno denunciato all’opinione pubblica il comportamento di Arcelor – secondo loro lesivo del principio della tutela dell’occupazione – e che pertanto hanno annunciato “guerra totale” alla multinazionale.

Ora, a nostro avviso, è bene fare chiarezza sull’intera vicenda che in molti stanno affrontando con un tale sfoggio di demagogia da alimentare il sospetto che, in realtà, l’obiettivo di taluni sia ben altro da quello di una chiassosa protesta contro un provvedimento di cassa integrazione ordinaria.

CRISI SIDERURGICA 

Procediamo con ordine: la crisi del mercato siderurgico è reale, non l’ha inventata ArcelorMittal e, pertanto, non si può chiedere (o peggio imporre) all’azienda di produrre in perdita: e per quanto doloroso sia il provvedimento per quelli che lo subiscono, esso purtroppo si presenta inevitabile, e ci si può solo augurare che il tetto massimo di 1.395 unità in cigo, da praticarsi a rotazione nei limiti del tecnicamente possibile, in realtà non venga raggiunto. L’azienda ha annunciato riduzioni di attività anche in altri suoi stabilimenti localizzati all’estero. Ma – si obietta da molti – così verrebbe a mancare il rispetto degli accordi sull’occupazione a suo tempo sottoscritti al ministero. E perché mai? La cigo non significa affatto licenziamento di coloro che ne saranno coinvolti. ArcelorMittal a Taranto ha assunto le 8.200 unità che si era impegnata a rioccupare, anzi le ha superate di 50. I lavori di ambientalizzazione della grande fabbrica proseguono intensi – e lo sanno bene le maggiori imprese dell’indotto che stanno lavorando a pieno regime in questi mesi – e l’azienda ha tutto l’interesse a proseguirli secondo le “attuali” prescrizioni dell’AIA (su questo aspetto torneremo fra breve), perché solo al termine degli stessi potrà tornare a rilanciare in pieno la produzione di acciaio colato; con il livello attuale dei suoi costi di esercizio, infatti, quel sito ha il suo punto di pareggio solo se raggiunge otto milioni di tonnellate all’anno.

Si obietta ancora che i dirigenti di Arcelor avrebbero dovuto – date le sue dimensioni mondiali – prevedere il rallentamento del mercato internazionale e fare in modo che non venisse toccato dalle riduzioni previste il sito di Taranto. Ma prevedere l’andamento del mercato non significa certo riuscire ad impedirne le dinamiche negative, e non si comprende perché solo Arcelor a livello mondiale non dovrebbe subire l’avversa congiuntura di una flessione della domanda.

INTENZIONI NASCOSTE 

Ma allora cosa potrebbe nascondersi dietro una così virulenta levata di scudi di tanti osservatori contro l’annuncio aziendale della cigo? Qualcuno maliziosamente ritiene che in realtà ArcelorMittal abbia annunciato la richiesta di cassa integrazione perché fortemente contrariata dalla volontà del Governo di riaprire l’AIA – introducendovi misure ancor più restrittive di quelle contenute nell’Autorizzazione in vigore – come la VIS-valutazione preventiva dell’impatto sanitario del ciclo produttivo, date le risultanze degli studi epidemiologici sinora compiuti su Taranto che evidenziano recrudescenza di specifiche patologie da inquinamento, derivanti però da un periodo in cui lo stabilimento non era gestito dalla società che ne ha assunto l’esercizio solo dal 1° novembre scorso.

Chi scrive non ha elementi per affermare che questa tesi maliziosa sia fondata, ma si ricorda che più volte il vertice di Arcelor ha dichiarato che un investitore di lungo periodo come lo è il Gruppo siderurgico interessato deve operare in un quadro di certezze normative, che nel caso specifico dell’AIA erano ben definite nel momento in cui si partecipava alla gara per l’aggiudicazione del compendio dell’Ilva e la si vinceva.

E se a questo punto fosse invece qualche demagogo a nutrire alcuni ben precisi retropensieri nei confronti di ArcelorMittal e del suo impegno su Taranto? E quali potrebbero essere tali pensieri non detti? Precisando subito che le nostre sono solo semplici supposizioni – che vorremmo fossero smentite da chi avrebbe tutti gli elementi tecnici per poterlo fare – ci chiediamo: siamo proprio sicuri che non si voglia indurre ArcelorMittal – che al momento è ancora in affitto di ramo d’azienda – a desistere dall’acquistarlo? Ora, a parte l’estrema delicatezza tecnico-giuridica degli effetti di questa malaugurata ipotesi, quale sarebbe l’obiettivo di chi persegua eventualmente tale disegno? Far tornare all’Amministrazione straordinaria la gestione dell’Ilva? E poi far riaprire la gara di aggiudicazione con la speranza che ritorni in campo la cordata AcciaiItalia poi scioltasi e che vedeva la partecipazione fra gli altri degli Indiani della Jindal – che proponevano l’impiego del preridotto di ferro e l’introduzione di forni elettrici – e della Cassa e depositi e prestiti ? E chi garantisce che non si presentino invece altre cordate potenzialmente vincenti, come ad esempio i Coreani della Posco, o i giapponesi della Nippon Steel? Ma – si afferma da qualcuno – un nuovo bando potrebbe prevedere l’obbligo per chi si aggiudicasse la gara di decarbonizzare radicalmente il sito, introducendovi forni elettrici e l’uso del preridotto di ferro. E se a questo punto, dati gli enormi costi di una simile operazione, nessuno si presentasse, si vorrebbe allora la nazionalizzazione del Gruppo? O si persegue da parte di qualcuno l’obiettivo vero che pure è trapelato in passato in certe dichiarazioni, della dismissione e della chiusura del sito di Taranto?

CATASTROFE ECONOMICA

Sarebbe, lo sanno tutti anche se fingono di ignorarlo, una catastrofe sociale, economica e produttiva senza precedenti nella storia economica del capoluogo ionico e del Paese, di cui qualcuno però dovrebbe assumersi a viso aperto la responsabilità, indicando con precisione e senza improvvisazioni risorse, obiettivi e tempi per un rilancio economico di Taranto di dimensioni pari al buco nero che si creerebbe con la chiusura del Siderurgico. Ma al punto in cui siamo, non si può escludere che proprio questo sia il vero fine perseguito da qualche demagogo: un fine di pura follia, ma ormai sembra che in questo Paese non vi sia più limite al peggio.

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