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L’Iran alza il tiro. E abbatte un drone americano

Un velivolo senza pilota statunitense è stato abbattuto mentre si trovava a sorvolare le acque internazionali nell’area dello Stretto di Hormuz. È stato colpito da un missile terra-aria lanciato dall’Iran: le Guardie rivoluzionarie (le Irgc secondo l’acronimo in inglese con cui viene internazionalmente chiamato l’ala militare a controllo teocratico della Repubblica islamica che gli Usa hanno recentemente designato come organizzazione terroristica), hanno rivendicato l’azione sostenendo che il velivolo americano era entrato nello spazio aereo iraniano – sopra Kuhmobarak, nella provincia di Hormozgan, nella costa sud del Paese – superando “la linea rossa” dice una dichiarazione ufficiale diffusa dalla Tasmin, agenzia stampa che segue l’operato delle Guardie.

COSA È SUCCESSO

Un funzionario americano ha confermato con Nbc News l’accaduto, ma ha detto che il drone – un Global Hawk da più di cento milioni di dollari, forse nella versione meno conosciuta MQ4C Triton sviluppata dalla US Navy, oppure un vecchio modello BAMS-D che la marina Usa utilizza da oltre dieci anni per pattugliare il Golfo (sono di stanza nella base di al Dhafra, negli Emirati Arabi) – non aveva violato i cieli iraniani. Per questo l’attacco della contraerea (probabile un’unità carrabile Raad) è stato “non giustificato”. Il portavoce del Comando Centrale, Bill Urban, in precedenza aveva detto che “nessun drone degli Stati Uniti sta operando nello spazio aereo iraniano oggi”. Pare che gli iraniani abbiano anche cercato di abbatterne un altro nel giro di poco tempo: forse il drone stava cercando di individuare i rottami, su cui è in corso una gara a chi arriva prima, perché gli americani sanno che potrebbero contenere dati sensibili, e essere usati sui media per propaganda.

È un episodio delicatissimo — con un precedente nel 2011, quando gli iraniani tirarono giù un un Sentinel americano riuscendo a recuperare dai rottami informazioni sulle tecnologie utilizzate che poi condivisero con la Cina E tutto si inquadra in un momento di altissime tensioni nel Golfo Persico tra Stati Uniti e Iran. Infatti, se finora gli iraniani erano stati accusati di azioni di guerra asimmetrica a “plausible deniability” – ossia a negazione plausibile, una tecnica usata per provocare potendo negare le proprie responsabilità – come i sabotaggi contro le petroliere o altri micro-attacchi in Iraq, in questo caso si intestano la paternità di un’operazione militare che potrebbe rappresentare un atto di guerra.

Dall’altra parte “non stiamo cercando una guerra” è il mantra che esce da Washington anche quando diffonde informazioni sull’imminente dispiegamento nel Golfo di un’altra portaerei col suo gruppo da battaglia nell’area (sarebbe la seconda, insieme alla “Uss Lincoln” e a un’altra serie di navi della marina e dei Marines). Oppure quando annuncia che altri mille soldati partiranno presto verso il Medio Oriente e si aggiungeranno a un rinforzo di millecinquecento deciso qualche settimana fa secondo la richiesta del CentCom, approvata rapidamente dalla Casa Bianca. Con loro anche nuovi missili Patriot.

GLI EPISODI PRECEDENTI

Non saremo sull’orlo di una guerra, però episodi sensibili in Medio Oriente si ripetono ormai a cadenza quotidiana. Due notti fa un razzo ha colpito il quartier generale dell’esercito iracheno a Mosul, la seconda più grande città d’Iraq, liberata dall’occupazione dello Stato islamico tre anni fa. In quella grande base ci sono anche alcuni soldati americani, che compiono ancora missioni contro le spurie baghdadiste, addestrano i soldati locali e hanno il compito di mantenere, con la propria presenza, la presa sul paese, che è tempestato di milizie sciite collegate a movimenti politici che hanno una relazione concatenata con Teheran (ne traggono ispirazione ideologica, ne seguono gli ordini, ottengono finanziamenti). La presenza militare americana negli ex palazzi di Saddam a Mosul, come fa notare il giornalista del Foglio Daniele Raineri (che l’anno scorso era là) non è molto sponsorizzata, ma chi spara quei razzi artigianali ne è perfettamente a conoscenza, e manda una provocazione a Washington.

Negli ultimi cinque giorni, in Iraq ci sono stati sei attacchi di questo genere contro gli interessi militari e civili americani. Sono state colpite delle basi con razzi simil-Katyusha (anche nel sud, a Bassora, dove le milizia sciite sono forti e controllano il territorio come uno stato nello stato) ed è stato colpito un sito di proprietà della Exxon Mobil, società petrolifera americana attiva in Iraq. Si tratta di attacchi di entità minore, come ha sottolineato il presidente Donald Trump a proposito dei sabotaggi alle petroliere davanti agli Emirati Arabi e nel Golfo dell’Oman. E su cui Teheran si può ritenere responsabile fino a un certo punto (lo è, perché quelle milizie prendono ordini dai Guardiani, ma non è facilmente dimostrabile). Qualcosa di simile, quattro settimane fa è successo all’ambasciata americana di Baghdad: un Katyusha ha colpito un edificio vicino, nessuno è stato responsabile, ma il missile è stato lanciato da un sobborgo in cui la Kataib Hezbollah ha appoggi logistici.

Ora però queste azioni, che si uniscono ai missili lanciati contro obiettivi civili (aeroporti, pipeline, un impianto di desalinizzazione delle acque) in Arabia Saudita dai ribelli yemeniti Houthi (che più passa il tempo e più dimostrano di avere relazioni con l’Iran, quanto meno sul fronte del passaggio degli armamenti), fanno registrare uno step-up. Il velivolo senza pilota super tecnologico abbattuto dalle Irgc era disarmato, di quelli usati per raccogliere informazioni e che in questi giorni sono piuttosto attivi visto che il Golfo Persico è diventato un’area in cui una petroliera può finire sabotata in qualsiasi momento come a inizio anni Novanta – a inizio mese, Teheran aveva minacciato di disporre un blocco navale proprio sullo Stretto di Hormuz, per bloccare le petroliere che scendono dal Golfo come rappresaglia per le sanzioni Usa sul greggio. Giovedì scorso, gli iraniani avevano già cercato di abbattere un altro drone, un Predator, al largo dell’Oman.

PERCHÉ I GUARDIANI HANNO PRESO DI MIRA I DRONI

Il motivo per cui sono i droni a finire nei mirini è semplice: non hanno piloti, e un abbattimento non coinvolge personale militare americano, cosa che significherebbe un’ulteriore crescita di livello del confronto. Il generale Hossein Salami, che comanda da pochi mesi i Guardiani (carica concessa dalla Guida Suprema per accontentare i falchi interni), ha detto che l’abbattimento è un messaggio diretto agli Stati Uniti su come i suoi uomini intendono difendere i propri confini, cosa su cui “siamo pronti alla guerra” – notevole il richiamo alla retorica America First sulla protezione territoriale professata da Trump.

I Guardiani sono una minoranza ultra-reazionaria che non rappresenta il reale pensiero del governo iraniano, che sia nella componente politica che in quella teocratica ha una linea molto più pragmatica: sanno che se usano moderazione (con accezione iraniana del termine) riescono a ottenere aperture e sbloccare il sistema sanzionatorio che ha distrutto l’economia di Teheran. Era stato pensato così l’accordo sul nucleare del 2015, dal quale però l’amministrazione Trump è uscita, e questo ha dato spinta per la propaganda di chi contestava il dialogo con gli occidentali. I falchi iraniani sono tornati a dettare agenda, il governo cerca spazi e prova ad alzare i toni – per esempio, la minaccia di uscire a breve dai paletti dell’accordo è stata costruita per questo – e il risultato è che quelle voci aggressive prendono forza e procedono secondo i propri interessi. Ora per Washington c’è un’ulteriore prova di autocontrollo per evitare escalation.

(Foto: usnavy.mil)



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