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Così gli Stati Uniti vogliono creare una “coalizione globale” contro l’Iran

Il presidente americano Donald Trump ha chiesto a Cina e Giappone di impegnarsi per preservare la sicurezza marittima lungo il Golfo Persico, in particolare sullo Stretto di Hormuz, la strozzatura del bacino in cui si nelle ultime settimane sono verificati diversi incidenti collegati all’inasprimento della crisi tra Stati Uniti e Iran.

IL RIEQUILIBRIO DEGLI IMPEGNI NEL GOLFO

È in quell’area che sono state sabotate sei petroliere, in due azioni diversi (a inizio maggio e dopo un mese esatto); è sopra quelle acque che gli iraniani hanno abbattuto un pattugliatore senza pilota BAMS-D americano. Trump dice chiaramente: perché gli Stati Uniti – che tra l’altro si stanno sganciando dal petrolio del Golfo diventando autosufficienti con gli shale – devono  farsi carico del costoso mantenimento dell’impalcatura di sicurezza regionale quando cinesi e giapponesi, per esempio, che sono dipendenti per percentuali enormi dal petrolio regionale non muovono un dito?”Zero compensation“, ossia non ripaga, dice Trump, stracciando una dottrina che dal 1948 vede la presenza navale americana nella regione, non tanto usando con la lente economica, ma quella dell’influenza. Un concetto ribadito anche dagli ultimi report del Pentagono, che vede nel non cedere spazio alla penetrazione cinese e russa nell’area un elemento strategico.

È però il riequilibrio degli impegni americani nel mondo che caratterizza la presidenza Trump, che in questo caso sfocia sul dossier mediorientale con declinazione Iran e ha una tempistica precisa: tra pochi giorni inizierà il G20 di Osaka, e la Casa Bianca intende portare il problema iraniano, e la stabilità regionale collegata, ai tavoli dell’incontro multilaterale, chiedendo che i grandi paesi del mondo si facciano carico di questo come di altre problematiche. Il tutto segue un filo logico: gli elettori di Trump non hanno interesse all’investimento economico necessario per il coinvolgimento in quella zona di mondo, ma vogliono quegli stessi soldi spesi negli Stati Uniti. È l’America First.

IL VIAGGIO DI POMPEO

Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, che in questi giorni si sta occupando di gestire la postura statunitense nel confronto con l’Iran, è in Arabia Saudita, e dopo un incontro a Gedda con il Re Salman e l’erede al trono Mohammed bin Salman, il policy maker del regno, si recherà negli Emirati Arabi per vedere Mohammed bin Zayed. I due giovani sovrani sono il motore delle politiche anti-Iran nella regione arabica, ed è proprio Teheran il tema dietro al viaggio di Pompeo: gli Usa accettano il confronto, ma chiedono a Riad e Abu Dhabi di esporsi maggiormente (pur volendo guidare le iniziative).

Nei giorni scorsi, gli Stati Uniti sono arrivati a un passo dal bombardare l’Iran, in rappresaglia per l’abbattimento di un velivolo senza pilota da parte della contraerea dei Pasdaran. Le bombe sono state fermate dal presidente Trump che ha invertito l’ordine dato in precedenza e annullato la missione quando gli aerei erano già in cielo. Tuttavia Washington non ha risparmiato una serie di attacchi informatici contro strutture di controllo iraniane, a cominciare dai sistemi radar delle batterie missilistiche. Trump, sabato, ha anche annunciato che a breve verranno ufficializzate nuove sanzioni contro la Repubblica islamica.

“GLOBAL COALITION” CONTRO L’IRAN 

Questione confermata anche da Pompeo: alcune, come ha detto Trump sulla CBS, saranno introdotte più lentamente, altre da subito (forse annunciate già oggi): le nuove misure americane contro l’Iran non cambieranno il quadro attuale, perché Washington ha già colpito Teheran “nel modo più profondo e severo possibile” dato che ha costruito un sistema di sanzioni extraterritoriali che sta distruggendo il suo commercio di materie energetiche. Il segretario, appena prima di imbarcarsi sul Boeing dell’89th Airlift Wing che l’ha portato nel Golfo, ha tenuto una conferenza stampa dalla pista della base aera di Andrews e ha detto chiaramente che lo scopo della sua visita nei regni amici è quello di creare una “global coalition” per gestire l’Iran. Per Pompeo, sotto la bandiera della coalizione globale non si dovrebbero però raccogliere solo gli alleati regionali americani, sauditi ed emiratini in primis, ma anche “in Asia e in Europa devono comprendere questa sfida” ed essere pronti “a respingere il più grande sponsor di terrorismo del mondo”. Le sanzioni sono un argomento, il mantenimento della sicurezza ragionale – come detto oggi da Trump – l’altro.

Una faccenda che è passata sotto traccia è stata la visita a Washington dell’Alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, che ha avuto un colloquio con Pompeo e un altro con il consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner (il genero-in-chief rappresenta l’ala pragmatica e non belligerante del circolo del potere attorno al presidente, e sta portando avanti personalmente il grande piano per arrivare a un accordo tra Palestina e Israele, aspetto che non è indipendente dalle relazioni con l’Iran, visto il collegamento che gruppi armati d’opposizione, come Hamas e Jihad Palestinese, hanno con i Pasdaran). Mogherini – che era a Washington qualche ora prima che quel drone venisse abbattuto sopra lo Stretto di Hormuz – ha detto che le discussioni con Pompeo hanno ruotato anche attorno al Jcpoa, l’accordo sul congelamento del programma nucleare iraniano del 2015, e sul suo valore come elemento di mantenimento della “sicurezza e della stabilità regionale”.

DISTANZE USA-UE 

Ma Europa e Stati Uniti sul punto sono piuttosto distanti. Trump ha tirato fuori Washington dall’intesa, da lui ritenuta “la peggiore di tutti i tempi”, nonostante l’Iran non ne stesse violando i capisaldi secondo l’Onu. Gli europei, Francia, Germania, Regno Unito e l’Unione in sé, hanno invece cercato, insieme agli altri co-firmatari, Cina e Russia, di mantenerla in piedi non tanto per la possibilità di riaprire il commercio con l’Iran – l’accordo ha infatti eliminato le sanzioni Ue contro Teheran – ma soprattutto per quel che ha detto Mogherini. Il Nuke Deal rappresenta(va) una forma di impalcatura di sicurezza, integrando l’Iran ed evitando pericolosi isolamenti. Washington, con l’uscita, ha però sfasciato parte di quella struttura, perché ha reintrodotto le sanzioni e con le formule secondarie va a colpire anche altri Paesi impegnati in business con Teheran, per esempio gli europei. La parte economica del deal era l’elemento di riqualificazione per l’Iran, venuto meno è più difficile accettare il negoziato.

Oggi al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la delegazione americana presenterà le prove sull’abbattimento del drone, per cui intende dimostrare che non c’è stato superamento territoriale dei cieli iraniani e l’attacco è stato un’azione avventurosa e non giustifica dei Pasdaran. È uno dei pezzi su cui Washington vuol basare il piano per costruire quel fronte di gestione per l’Iran – che dovrebbe passare anche dal sostanziale ritiro europeo dall’accordo – e aiutarsi nel documentare che Teheran non è al momento un attore con cui tenere in piedi un’intesa. Però non va nemmeno isolato, e la richiesta di coinvolgimento – fosse anche per la sicurezza marittima – della Cina è un elemento. Il rischio dell’isolamento è che le voci più oltranziste a Teheran ritornino a prendere più spazio e spingere per contromosse aggressive (per esempio la già annunciata intenzione di sforare i termini di arricchimento dell’uranio previsti dal Jcpoa). Esperienza empirica: il ritiro americano dal deal all’interno della strategia della “massima pressione” ha rinfocolato posizioni che in Iran erano state tumulate da quelle pragmatiche del governo.

LA TRIANGOLAZIONE USA-ISRAELE-RUSSIA

Intanto ieri John Bolton, il consigliere per la Sicurezza nazionale americano considerato il più falco sulle politiche anti-Iran, era a Gerusalemme e in un incontro con il premier Benjamin Netanyahu ha ribadito che Trump ha solo “stopped” – stoppato, il termine usato per evitare di far passare il contrordine sull’attacco post-drone come una debolezza – il bombardamento, e solo “per il momento”, ossia ha confermato che l’opzione dei raid aereo-navali è ancora sul tavolo. È una rassicurazione – la stessa fatta anche da Pompeo – davanti alle voci fatte filtrare dall’intelligence israeliana (e non solo) secondo cui gli Stati Uniti non avrebbero risposto in modo adeguatamente forte all’abbattimento del drone. Bolton ha parlato pure di sanzioni, che stanno già “mordendo” l’economia iraniana e “altre sono in arrivo”, ma sebbene il consigliere rappresenti le posizioni più guerresche dell’amministrazione Trump – e per questo il suo rapporto con il presidente non è ai massimi – anche la missione di Bolton ha un contorno diplomatico di primo interesse.

Oggi, a Gerusalemme, Bolton vedrà Nikolai Patrushev, il suo omologo al Cremlino: i due, con l’occasione del trilaterale Usa-Israele-Russia parleranno dell’incontro tra Trump e Vladimir Putin a latere del G20 di Osaka, ma è possibile che ci sia anche una triangolazione sull’Iran. Mosca ha concesso spazio in modo non ufficiale agli israeliani che hanno più volte colpito le postazioni dei Pasdaran in Siria – mentre passavano armi ai partner regionali come Hezbollah sfruttando il caos della guerra civile. È possibile che i russi accettino di svolgere un qualche ruolo nella situazione nel Golfo: Putin cerca una riqualificazione con sponda Trump; è ottimo alleato dei sauditi e dialoga continuamente con Israele; ha una partnership con l’Iran che però mal sopporta per via di alcuni comportamenti troppo aggressivi e ideologizzati degli apparati legati al conservatorismo teocratico di Teheran (i Pasdaran, appunto).

 



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