Il sito statunitense specializzato in Difesa, Military Times, ha messo nero su bianco un esercizio di pianificazione che al Pentagono è da tempo – a maggior ragione adesso – al centro della programmazione ordinaria: come potrebbe svolgersi un eventuale conflitto con l’Iran? Quello che diversi funzionari dei settori sicurezza, difesa e intelligence statunitensi hanno ipotizzato con i cinque giornalisti che hanno firmato il saggio, è frutto dei ragionamenti che escono da un pianificazione di routine in continuo aggiornamento, che – in queste settimane in cui Washington ha spostato nuove risorse militari in Medio Oriente ritenendo la minaccia iraniane crescente – è arrivata alla ribalta delle cronache quando è stato spifferato il piano con cui l’America ingaggerebbe lo scontro. Si è parlato di 120mila militari, azioni bloody nose per lasciare al tappeto l’avversario.
ESTERNO NOTTE, IN MEZZO AL GOLFO PERSICO
Scenario di partenza: notte, i marinai di una nave da guerra americana – una del gruppo da battaglia della “USS Lincoln” per esempio, che in questi giorni transita nella acque del Golfo Persico e della Penisola Araba – vengono svegliati di soprassalto da un’esplosione. Un barchino teleguidato, un drone kamikaze, un sommergibile agile come il Fateh iraniano, ha colpito lo scafo, che imbarca acqua. Contemporaneamente, dalle aree remote dove il confine siriano si fonde con quello iracheno, un plotone di forze speciali americane – sul posto col ruolo di unità anti-Is, ma anche come deterrente contro la diffusione iraniana in Siria – vengono svegliate da una pioggia di colpi di mortaio. Sono sotto attacco da parte di una delle milizie sciite irachene – la Badr Organizzation, la Lega dei Giusti, la Kataib Hezbollah – che Teheran ha mobilitato per salvare il regime siriano dai ribelli e adesso sono un’impronta stabile nel tessuto sociale a Damasco e Latakia. La guerra ha inizio.
FRENI ROTTI
Il governo iraniano potrebbe rispondere ufficialmente di non essere coinvolto in attacchi diretti, potrebbe incolpare qualche fazione estremista interna che è uscita dal controllo centrale e ha ordinato gli attacchi a forze proxy come quelle in Siria – o nel Golfo ai sub di Hezbollah. È uno scenario fin troppo credibile: a Teheran ci sono due anime contrastanti. Una maggioritaria, che è quella che ha prodotto il dialogo con il mondo su cui è stato costruito l’accordo sul nucleare – stracciato dagli americani. L’altra ha posizioni estremiste, si rifà all’ideologismo teocratico, vede nello scontro con gli Stati Uniti uno spazio per predicazione e consenso, ossia per far rimanere in vita i propri interessi con cui ha incrostato il tessuto economico-sociale iraniano.
È la componente che si rifà al Corpo della Guardie della Rivoluzione, che sono il motore dietro all’allargamento dell’influenza regionale attraverso partiti-milizia che agiscono per procura all’interno di altri stati (l’Iraq, la Siria, il Libano, lo Yemen). Se c’è questo incessante richiamo da parte della Comunità internazionale a evitare escalation nelle regione, è proprio perché a queste componenti estremiste può slittare facilmente la frizione e rendere la situazione incontrollabile.
EFFETTO PALLA DI NEVE
Davanti a un attacco di qualsiasi genere, la difesa americana scatterebbe immediata in un contrattacco, in effetti. Le postazioni costiere iraniane sarebbe prese di mira dai missili lanciati dai cacciatorpedinieri, bombardieri stealth come gli F-22 e gli F-35 colpirebbe le difese aeree, i B-52 schierati ad al Udeid si alzerebbero in volo per martellare postazioni strategiche. La risposta iraniana sarebbe simmetrica. Qualsiasi nave americana, anche ovviamente mercantile, sarebbe sotto il raggio di azione dei missili di Teheran (il passaggio strategico di Hormuz intasato da mine e barchini pronti all’azione), così come tutto il raggio degli alleati, dal Golfo alla Turchia potrebbe finire sotto i missili balistici degli ayatollah. Al di là delle divisioni interne, l’Iran a quel punto sarebbe in guerra con gli Stati Uniti e almeno inizialmente gli eventi si susseguirebbero con una velocità altissima difficile da invertire.
ATTACCHI CYBER E AZIONI JIHADISTE COME ARMA PSICOLOGICA
Siamo ovviamente all’interno di un wargame, ma val la pena di continuare con lo scenario catastrofico. A questo punto non si possono escludere attacchi cyber ovviamente: colpite le transizioni finanziarie, i sistemi di controllo delle utenze – prima di tutte l’energia elettrica, in Iran da parte degli Usa, ma nei paesi alleati americani da parte dell’Iran – per intaccare l’Internet of Things. L’Iran ha dimostrato di avere hacker preparati, gli Stati Uniti hanno istituito all’interno del Pentagono un comando apposito, il CyberCommand. Le attività delle fazioni jihadiste alleate iraniane sarebbero un’altra componente psicologica della guerra: sono molte, fatte da miliziani integralisti sciiti, parti di quelle milizie proxy controllate dalle Guardia. Gli obiettivi potrebbero essere infiniti per una mobilitazione di massa: ogni angolo trafficato di una strada a Riad o un mercato di Abu Dhabi sarebbe un soft target da sfruttare per colpire gli americani e soprattutto gli alleati regionali. Ma il malware terroristico si potrebbe diffondere altrove. Perché, ovvio, il coinvolgimento sarebbe ampio, complesso.
CONSEGUENZE DEVASTANTI
Non ci sarebbero soldati a invaderebbe l’Iran – non è previsto da nessun piano di attacco di quelli più o meno resi pubblici, per questo tutti i commentatori lo escludono – ma i boots on the groud avrebbero lo stesso un ruolo fondamentale nella logistica attorno alle batterie di missili anti-aereo Patriot e potrebbero indirizzare azioni rapide con i sistemi Himars (l’8 gennaio la 65esima Field Artillery Brigade ha tenuto un’esercitazione a Camp Buehring, in Kuwait, simulando un attacco di artiglieria contro l’Iran: wargame è vero, ma basati su circostanze reali). Dopo settimane – forse mesi – di scontri non controllabili ci potrebbe essere una tregua che lascerebbe a terra uno scenario pazzesco, con migliaia di vittime e miliardi di distruzione, e senza un vincitore. È stato un esercizio giornalistico, un approfondimento analitico, ma mosso da considerazioni che nelle sale di comando americane e iraniane sono molto più concrete. Anche per questo sia Washington che Teheran hanno più volte ripetuto di non essere intenzionati a combattere una guerra. La scorsa settimana il presidente Donald Trump ha detto che non è interessato a un regime change iraniano, qualche giorno fa il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha detto che gli Usa sono pronti a nuove trattative. Secondo gli analisti che hanno parlato con Military Times, in effetti, una guerra non destituirebbe la leadership iraniana: anzi.