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Pyongyang rincara la dose contro gli Usa. Trump tiene duro

Quasi esattamente un anno fa, il 12 giugno 2018, il presidente americano Donald Trump incontrava per la prima volta il satrapo nordcoreano Kim Jong-un: era l’inizio ufficiale di una stagione negoziale già aperta qualche mese prima, quando il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, invitò la sorella del leader, Kim Yo Jong, e altri notabili del regime di Pyongyang alle cerimonie per le Olimpiadi invernali di Pyeongchang. Ora il ministero degli Esteri del Nord, tramite una dichiarazione diffusa dalla propaganda governativa dell’agenzia KCNA, ha rimesso tutto in discussione: l’accordo stretto tra i due leader – una dichiarazione congiunta molto blanda in cui si impegnavano a continuare i contatti – è a rischio, potrebbe saltare a causa delle pressioni “non dovute” con cui Washington “continua a insistere sulla nostra resa unilaterale di armi nucleari”.

UN MUCCHIO DI FOGLI BIANCHI

Se gli Stati Uniti “non rinunceranno al calcolo [di interessi]” e “non presenteranno qualcosa di nuovo prima che sia troppo tardi”, dice il regime: “Se l’accordo di Singapore resterà efficace o varrà come un mucchio di fogli bianchi sta agli Stati Uniti deciderlo” – “C’è un limite alla nostra pazienza”. Pyongyang cerca di stressare il dossier anche perché sul lato americano la risposta della Casa Bianca è paziente. E lo è davvero, perché in altri tempi Trump avrebbe già tuonato la sua scarica di tweet davanti a certe montature. Da mesi Kim ha ripreso a far circolare la retorica aggressiva – utile anche per tenere a bada le voci critiche, i gerarchi che vedono nel dialogo con gli Usa una debolezza del leader – e ha anche compiuto un paio di nuovi test missilistici. Trump su questi ha addirittura smentito il suo consigliere John Bolton, che li aveva denunciati come una violazione delle risoluzioni Onu: “Qualcuno dei miei si è urtato”, ha scritto su Twitter, “ma non io”, continuando a sottolineare come con Kim ci fosse fiducia reciproca e spirito di dialogo, nonostante il loro ultimo incontro – a febbraio, ad Hanoi – era finito con un nulla di fatto e con l’americano che s’era alzato battendo i pugni e lasciando il tavolo prima del previsto (mossa che può anche essere letta come uno dei tipici tentativi trumpiani di portare i negoziati a un livello di stress e indirizzarli a proprio favore, visto che di solito tratta da una posizione di forza).

L’AMORE E LE ESECUZIONI

“We fell in love”, ha detto una volta Trump a proposito del satrapo, “abbiamo una buona chimica”, affermazioni che sono state riprese ultimamente dai critici trumpiani (per esempio, l’ex ambasciatore a Mosca, Michael McFaul) davanti alle purghe severe ordinata dal satrapo di Pyongyang contro chi riteneva responsabile per il momentaneo stallo dei negoziati. Trump, che s’è sempre giustificato usando il pragmatismo (“Faccio quel che faccio per portare a casa il risultato”), ha trovato sponda nelle apparenti smentite sulle esecuzioni. Sembrerebbe (ne scrive la CNN, attendibile anche perché pronta sempre a criticare Trump) che il capo dei negoziatori e l’interprete dell’ultimo summit, che secondo le fonti del principale giornale sudcoreano erano stati giustiziati, siano in realtà soltanto detenuti; mentre la sorella del leader, Kim Yo Jong (anche lei parte di quel sistema negoziale che imbarca acqua e rende nervoso Kim), è tornata in pubblico dopo settimane di assenza. Domenica scorsa, inoltre, uno dei più importanti gerarchi del regime, Kim Yong Chol, dato anche lui vittima del repulisti interno e spedito ai lavori forzati, è stato fotografato vicino Kim a teatro: un posto che non gli sarebbe stato concesso se non fosse ancora nelle grazie del leader (sebbene pare sia stato finora confinato in ufficio a scrivere report auto-critici). Ricostruzioni su cui comunque non ci sono conferme.

LA DISSONANZA COGNITIVA

Trump è “soft on the people” e “hard on the problem”, principio base di dottrine sulle negoziazioni: andarci morbidi con le controparti, ma essere severi sulle questioni (è la teoria psicologica della dissonanza cognitiva: serve a smarcare le persone dal problema, in modo tale che dissociandosene, sebbene ne siano parte, possano accettare compromessi: si fa anche con i rapitori per ottenere il rilascio di ostaggi, come spiegato sulla Harvard Business Review). In questo caso, è accondiscendente con Kim, ma non si muove di un millimetro sulla necessità di bloccare il programma nucleare del Nord. E non arretra sull’allentamento delle sanzioni, che sono il vero motivo per cui Pyongyang pressa e il leader scalpita. I nordcoreani vorrebbero respirare, con un’economia sfiancata dalle misure d’isolamento internazionali (ora colpita anche dalla peste suina), chiedono che la riapertura di qualche asset proceda simultaneamente all’avvio del processo di denuclearizzazione. Su questo il presidente – che forse potrebbe essere d’accordo su alcune, minime concessioni – accetta la linea degli apparati, che chiedono di mantenere in piedi il regime di massima pressione contro il Nord.


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