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Attaccare le imprese può costare caro al M5S. Lo spiega Mingardi (Ibl)

No, non c’è niente di folle nell’attacco su larga scala che una parte del governo sta portando avanti ai danni delle grandi imprese. L’Ilva e ora Atlantia sono il prodotto di una scelta consapevole, logica. E Luigi Di Maio non è improvvisamente impazzito. L’assalto frontale alla società dei Benetton, che ora minaccia di portare in tribunale il governo o parte di esso e prima ancora ai nuovi proprietari dell’Ilva che adesso paventano l’abbandono di Taranto a otto mesi dall’acquisizione è qualcosa di razionale, frutto di una linea di pensiero precisa: il primato della politica sull’economia e le sue leggi. Un giochino che però non è a costo zero, anche se a qualcuno può sembrare tale. La vede così Alberto Mingardi, saggista co-fondatore e direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, che a Formiche.net spiega il suo personalissimo punto di vista su una questione che segna forse il punto più basso delle relazioni tra politica e industria.

PRIMA LA POLITICA, POI TUTTO IL RESTO

Quando gli si chiede un giudizio secco sulle bordate del ministro dello Sviluppo, del Lavoro e vicepremier rifilate a chi decide di investire in questo Paese, Mingardi è netto. “Non penso che si tratti di parole in libertà, di uscite lessicali in libertà. Semmai si tratta di esternazioni figlie dell’anima di fondo di certe forze politiche che si trovano attualmente al governo. Parole che riconducono a un principio: la politica vince su tutto, anche sui vincoli. E per vincoli intendo norme, equilibri di mercato, azioni, investimenti. Tutto quello a cui il governo o parte di esso sembra ribellarsi con una certa coerenza. Il fatto poi che simili affermazioni o attacchi spingano le aziende a disinvestire sono solo conseguenze: posti di lavoro che saltano e titoli che crollano in Borsa, non importa. Il resto del mondo si arrangi, la politica deve vincere su tutto”. Il ragionamento di Mingardi è chiaro. “Una parte di governo non pensa che comandino azionisti, investitori, risparmiatori, ma che comandi solo e semplicemente la politica. Per questo sono assolutamente convinto che quelle di Di Maio non siano parole scappate di bocca, ma qualcosa di programmato, di voluto e coerente con la linea del partito anti-industriale”.

LE CONSEGUENZE DELLE PAROLE

Attenzione però a non commettere un errore. Cioè pensare che visto che l’attacco alle imprese e dunque al mercato è frutto di una filosofia precisa, allora tutto sia possibile, tutto sia fondamentalmente gratis. Non è così. C’è sempre un prezzo da pagare e il prezzo si chiama voto. “Quando simili impostazioni incontrano una realtà economica allora ci possono essere delle conseguenze. Chi perde il salario perché l’azienda dove lavorava ha chiuso i battenti dopo che i proprietari se ne sono andati altrove, sia che si parli dell’Ilva o di altre, potrebbe decidere per esempio di non votare più quella forza politica che ha causato la delocalizzazione. Almeno per il momento queste due cose sono su binari diversi e dunque non c’è una reazione dell’elettorato. Ma qualora ci fosse, qualora una fuga degli investitori cagionasse un’emorragia di posti di lavoro, il partito al governo che le ha provocate ne potrebbe pagare il prezzo”.

LA FINTA DI TRUMP (SU DRAGHI)

La conversazione con Mingardi si conclude Oltreoceano, precisamente alla Casa Bianca. Mario Draghi sembra essere l’uomo più ricercato del momento. L’Italia lo vuole al vertice della Commissione Ue e lo vuole persino Salvini. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha immaginato addirittura un Draghi governatore della Fed, la banca centrale americana. Mingardi non la beve. “Si tratta di un finto complimento. Trump non vuole Draghi, o meglio non lui solo e soltanto, vuole un banchiere che gli dica di sì, sempre e comunque. Se vuole un capo della Fed diverso da quello che ha, non ha che da cercarlo sul mercato. Di solito un banchiere centrale non deve essere prono alla politica, semmai frenarla. A Trump evidentemente non sta bene”.

 

 

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