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Trump guerrafondaio? È il pacifista che i Dem non si aspettavano

Circola un’idea sballata dietro alla ricostruzione di quanto avvenuto – o meglio sta ancora avvenendo – tra Stati Uniti e Iran, o meglio tra presidenza Trump e Teheran. Secondo analisi che non portano un’oncia di prova, i sabotaggi alle petroliere avvenuti nell’area nevralgica delle Stretto di Hormuz (il primo episodio a inizio maggio, l’altro dopo un mese esatto) sarebbero stati compiuti come operazioni false flag, ossia missioni clandestine ordinate da qualche eminenza grigia (Israele, l’Arabia Saudita, la Cia) per poi incolpare l’Iran e scatenare una guerra che Donald Trump bramerebbe.

I FATTI

La tesi dice che l’Iran non avrebbe interesse a compiere certe azioni perché avrebbe solo da rimetterci, e dunque sembrerebbe tutto facile, se non fosse che oltre alle prove non si tiene conto di ciò che è successo dopo. I Pasdaran iraniani hanno abbattuto un velivolo senza pilota statunitense: un episodio ufficiale che avrebbe potuto scatenare la reazione per rappresaglia americana, che però non ci sono state. O meglio, c’è stata una contro-azione ma in modo più leggero e meno spettacolare del previsto. Trump ha ordinato di annullare un attacco mentre i bombardieri erano già in volo, e non si tratta di pacifismo ma è una buona dose di freddezza che ha spiazzato i Democratici (e una narrativa che lo definiva guerrafondaio). Ha poi ordinato ritorsioni tramite attacchi cyber che non hanno avuto obiettivi fisici – ossia, non hanno prodotto danni a persone, ma dovrebbero aver mandato in tilt i sistemi missilistici come quello che ha colpito il drone.

La Casa Bianca ha anche alzato nuove sanzioni contro l’Iran, ma Trump ha continuato a tenere la porta aperta al dialogo viaggiando sua una retorica con cui intende sdoppiare la realtà interna a Teheran: da una parte mettere i cattivi – ossia i Pasdaran e la loro struttura parastatale – che seguono una linea aggressiva, ideologizzata, e cercano l’egemonia regionale odiando americani e alleati; dall’altra i pragmatici, che dovrebbero sganciarsi del tutto dal peso del corpo militare teocratico e permettere al paese di sviluppare quel “futuro fenomenale”, come Trump stesso lo ha chiamato quando ha detto di aver sentito la necessità di fornire al paese “una buona opportunità”, commentando l’annullamento del raid e l’offerta di negoziati e incontri; che l’Iran in questo momento rifiuta anche semplicemente perché accettare subito sarebbe una dimostrazione di debolezza.

LA STRATEGIA

La strategia di Trump è un azzardo: la massima pressione – ossia strozzare con le sanzioni e con movimenti militari e politici l’Iran per farlo tornare al tavolo e chiudere un nuovo accordo sul nucleare ancora più stringente rispetto a quello del 2015, da cui Trump s’è ritirato – non sta funzionando granché, e sta mettendo in difficoltà Washington. Ha inasprito le posizioni oltranziste, che stanno agendo anche in forma incontrollata. Però quello che dimenticano le ricostruzioni di chi pensa che sia tutta una farsa per scatenare una guerra con l’Iran sono, di nuovo, i fatti.

Trump ha detto molte volte di non cercare la guerra con l’Iran; ha definito “very minor” le vicende delle petroliere; ha detto che ad abbattere il drone americano è stato un qualche comandante “loose and stupid“; ha chiesto alla Cina e al Giappone di farsi carico di mantenere la sicurezza delle navi cargo che escono dal Golfo; ha continuato a offrire spazi (stretti, certamente) di negoziato a Teheran; ha addirittura apprezzato che gli iraniani non abbiano abbattuto un P-8 Poseidon che viaggiava vicino al drone con 35 membri del personale a bordo; ha – come detto – bloccato i bombardamenti perché credeva fossero “non proporzionati” all’offesa ricevuta perché avrebbero rischiato di uccidere 150 iraniani; ha spostato un nuovo contingente militare in Medio Oriente che – al di là dei clamori e dello spin politico – è più che altro composto da tecnici e addetti alla logistica che accompagnano batterie Patriot, ossia assetti difensivi.

BONUS: TRUMP VERSO I “DISGUSTOSI” GUERRAFONDAI

Poi c’è un altro aspetto da sottolineare a sostegno della non volontà belligerante di Trump. La questione interna. Il dossier iraniano è un altro elemento di spaccatura tra il presidente e il nido dei falchi del Consiglio di Sicurezza nazionale, in particolare col consigliere John Bolton. Ci sono diverse ricostruzioni mai smentite, ma anzi anche in questo caso i fatti le sostengono. Trump, per esempio, commentando le sue posizioni sull’Iran, avrebbe definito “disgustosi” i suoi consiglieri che lo stanno “spingendo verso una guerra” secondo una ricostruzione del Wall Street Journal, un media non nemico della presidenza che l’ha pubblicata quattro giorni fa e li è rimasta ancora senza una smentita. Intervistato da Chuck Todd di NBC News, Trump ha detto: “Ho due gruppi di persone, ho le colombe e ho dei falchi. John Bolton è assolutamente un falco. Se dipendesse da lui, avrebbe affrontato il mondo intero in una volta, ok?“. È una battuta, ma sembra dare uno spaccato di quel che pensa il Prez.

Il presidente ha aggiunto di aver la necessità di avere con sé entrambi le parti, e forse quella aggressiva serve a dare un senso realistico alle sue minacce, ma lui pare più portato ad ascoltare le colombe. E il cerchio di potere famigliare che circonda lo Studio Ovale e che Trump tiene in prima considerazione non ha certamente posizioni guerresche. Quando oggi inizieranno formalmente il dibattito tra i candidati per il 2020 i Democratici avranno un elemento importante da tenere a mente per non rischiare di finire di nuovo fagocitati dal loro stesso racconto alterato. Trump è l’uomo del disimpegno americano, odia le guerre anche semplicemente per una questione pratica: sottraggono soldi agli investimenti che vorrebbe fare in America per obiettivi che secondo lui sono secondari. Come potrebbe avere interesse, a un anno dalle elezioni e con le compagne elettorali già lanciate, di avventurarsi in una guerra dagli esiti incerti, e sicuramente lunga, complessa, dispendiosa e sanguinosa? Trump vuole una vittoria mediatica: un accordo con uno dei grandi nemici degli Stati Uniti, che sia la Corea del Nord, la Cina o l’Iran. La sua strategia è da dealer, batte i pugni sul tavolo, si alza e se ne va, minaccia, pressa, e quelli come Bolton sono l’elemento che rende realistico il suo bluff (o show).



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