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Le aziende non si comprano con gli incentivi. Il caso Whirlpool visto da Maffè

C’è un errore di fondo nelle vicende industriali di Ilva e di Whirlpool. Solo sei mesi fa il gruppo franco-indiano Arcelor-Mittal diventava proprietario dell’Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, un tempo parte della galassia Riva. E, pochi giorni fa la stessa società ha annunciato la messa in Cassa integrazione per 1.400 a Taranto. Poco più a Ovest, direzione Napoli, un’altra doccia fredda. Le voci (smentite dalla stessa azienda) che Whirlpool voglia vendere lo stabilimento di Napoli, nonostante lo scorso ottobre abbia firmato un accordo quadro con i sindacati per il trasferimento della produzione di lavatrici in Italia e zero esuberi nel 2021. Un’intesa allora festeggiata dal vicepremier Luigi Di Maio che parlò di un “un cambio di passo per l’Italia” perché dopo la lotta alle delocalizzazioni “sta succedendo qualcosa che va oltre: stiamo riportando lavoro in Italia”.

Lo stesso ministro che questa mattina ha annunciato il ritiro degli incentivi all’azienda americana, colpevole “di aver disatteso i patti col governo: ne hanno avuti circa 50 milioni di euro dal 2014 a oggi (di incentivi, ndr). Whirlpool non ha tenuto fede ai patti e si è rimangiata la parola e dice di voler chiudere lo stabilimento di Napoli. Se vieni in Italia e prendi i soldi dello Stato non è che poi te ne vai e chiudi gli stabilimenti tenendo un atteggiamento contrario ai patti”. Qualcosa non quadra nella politica industriale del governo gialloverde. Grandi gruppi che piombano in Italia e poi qualcosa va storto. Colpa nostra? Colpa loro? Colpa di tutti e due? Domande girate direttamente a Carlo Alberto Carnevale Maffè, associate professor of practice di Strategy and Entrepreneurship presso la Sda Bocconi School of Management.

“Qui se c’è una colpa è quella del governo, che ha commesso un errore di valutazione politica evidente: è pura follia pensare di poter determinare la politica industriale di un gruppo, di una multinazionale basandosi solo con gli incentivi. Nessun governo può riuscirci, nemmeno in Cina, a meno che non si tratti di un’azienda pubblica, che in quel caso fa quello che gli dice il governo. Un’impresa risponde solo ed esclusivamente a due logiche: il mercato e gli azionisti. Non comprendo dunque come ci si possa arrabbiare ora con Whirlpool. Il fatto che la politica possa fare il bello e il cattivo tempo nell’industria è pura illusione. Il bello e il cattivo tempo lo fa il mercato”, spiega Maffé.

“Il mercato stabilisce le condizioni per le quali un’azienda vive o muore, non si può nemmeno lontanamente immaginare di comprarsi un’impresa a suon di incentivi, impensabile. Il governo ha sbagliato semplicemente obiettivo: si parla di patti disattesi, ma di quali patti parla? Lei si immagini se si facesse un patto con un’azienda per produrre motori diesel in Italia e poi arriva l’Unione europea e dice che quel motore non si può più fare. Niente, l’azienda chiude e non c’è patto che tenga. Stessa cosa per Whirlpool o Mittal. Mercato in crisi e si prendono contromisure. E questo Di Maio non può controllarlo, non decide lui e non la politica, per questo dico che c’è poco da arrabbiarsi”.

Il vero patto è per l’economista e docente, semmai un altro. “Il governo, se vuole fare davvero qualcosa, deve smetterla di dare incentivi pensando di controllare le aziende che investono qui. Può invece occuparsi dei lavoratori che vengono licenziati, per riqualificarli  e re-inserirli nel mercato del lavoro. Questo sarebbe il vero patto alla base di una politica industriale credibile: il ministero del Lavoro deve occuparsi dei lavoratori che vengono messi sulla strada, il ministero dello Sviluppo deve a sua volta creare le condizioni per dare certezza degli investimenti e quindi evitare che si arrivi a licenziamenti e chiusure. Questo sì che sarebbe gioco di squadra vincente. Tutela dei lavoratori da una parte e tutela degli investimenti dall’altra. Il resto lo fanno gli imprenditori”.

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