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Afghanistan: Stati Uniti e talebani vicini a un’intesa?

Tira aria di rasserenamento in Afghanistan. Stando a quanto riportato dall’Associated Press, l’inviato di pace statunitense in loco, Zalmay Khalilzad, ha dichiarato ieri che, per la prima volta, si sarebbero registrati progressi “sostanziali” su tutti i principali dossier sul tavolo per arrivare a un accordo di pace, nell’ambito di un conflitto che sta ormai martoriando da diciassette anni il territorio. Addirittura, secondo l’inviato, l’ultima fase di colloqui intrattenuti con i talebani si sarebbe rivelata, ad oggi, la “più produttiva”. In particolare, Khalilzad ha dichiarato che le discussioni si sono focalizzati sul ritiro delle truppe e sulle garanzie contro le minacce terroristiche, aggiungendo poi che si sarebbero estese all’inclusione di un calendario per i negoziati intra-afgani, oltre che per il cessate il fuoco: due questioni su cui – secondo l’inviato – dovranno essere gli stessi afgani a prendere una decisione. Ulteriori dettagli, per ora, non sono stati rivelati. E si attende una ripresa dei colloqui il prossimo martedì.

Ad oggi, ricorda l’Associated Press, i talebani hanno rifiutato di trattare direttamente con l’attuale governo dell’Afghanistan, da loro considerato come una marionetta nelle mani degli Stati Uniti. Nel corso di una conferenza stampa tenuta a Doha, dove ha incontrato i talebani, Khalilzad ha così sostanzialmente affermato di sperare che i colloqui afgani potranno aiutare a delineare un quadro chiaro per il futuro dell’area: un fattore che dovrebbe coinvolgere tutte le parti in conflitto, stabilendo elementi dirimenti come il nome del Paese, il destino delle milizie e le revisioni costituzionali. Nella fattispecie, l’inviato ha dichiarato che l’“aspirazione” americana sarebbe quella di avere un quadro in vigore pronto per l’1 settembre, in vista delle elezioni presidenziali afgane previste per il 28 dello stesso mese.

A fine giugno, si era del resto recato in Afghanistan il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, il quale aveva affermato che gli Stati Uniti fossero pronti a ritirare le truppe dal territorio, senza tuttavia annunciare una scadenza precisa. “Abbiamo chiarito ai talebani che siamo pronti a rimuovere le nostre forze, voglio essere chiaro, non abbiamo ancora concordato una tempistica per farlo”, aveva non a caso dichiarato, per poi aggiungere: “Riguardo al terrorismo, abbiamo compiuto reali progressi e siamo quasi pronti a concludere una bozza di testo che delinea gli impegni dei talebani di unirsi ai connazionali afgani per garantire che il suolo afgano non diventi mai un rifugio sicuro per i terroristi”.

Il conflitto afgano, diventato noto come la guerra più lunga degli Stati Uniti, sta proseguendo da oltre diciassette anni, ha determinato più di 2.400 morti americane, costando – tra l’altro –  miliardi di dollari. Elementi difficili da digerire per l’attuale presidente statunitense, Donald Trump, che sta conducendo dal 2015 una campagna finalizzata a terminare le “guerre senza fine” in cui l’America resta spesso invischiata in giro per il mondo. E, in questo senso, il conflitto in Afghanistan ha per lui assunto un forte significato simbolico. Questi lunghi impegni bellici sono infatti sempre meno tollerati dall’elettorato statunitense. Un fattore di cui Trump è pienamente consapevole: soprattutto in questo momento, con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali del 2020. In un tale contesto, la nomina di Khalilzad, lo scorso settembre, ha accelerato gli sforzi per trovare un’intesa negoziata in grado di porre fine alla guerra in Afghanistan. Da allora, l’inviato ha tenuto numerosi colloqui con il governo locale (a Kabul e all’estero), con i talebani e con i vicini del Paese.



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