La globalizzazione finanziaria ha ucciso l’economia reale e l’umanità che la sosteneva. L’interconessione tra i mercati ha saturato la pluralità identitaria fino ad annullarla nella “produzione unidimensionale” con il risultato di ridurre il lavoro, privo di eticità, a palestra “mercatista” nella quale si esercitano, mossi da avidità incontenibile, gli speculatori mondialisti. Sono crollate le paratie delle specificità sotto l’urto del “pensiero unico” che sacrifica l’economia solidale all’arricchimento di oligarchie senza patria e prive di moralità. L’uso spregiudicato dei beni universali da parte dei poteri finanziari, mediatici e tecnologici ha reso le nazioni più povere e gli individui soggetti ai capricci dei manovratori di capitali privati e di Stati illudendo tutti con il miraggio di facili ricchezze (la crisi del 2008). L’immiserimento di vaste aree del Pianeta, dalle quale si dipartono “disperati” alla ricerca di una qualche sopravvivenza, considerati dai neo-egoisti che si privano perfino del piacere/dovere al mettere al mondo dei figli, come “nemici” ed inquinatori della “loro” civiltà, è la logica conclusione, unitamente alle devastazioni climatiche riconducibili allo stesso universo globalista impadronitosi della politica attraverso la diffusione della pratica neo-liberista, del processo di spossessamento dei diritti dei popoli. Su di essi, infatti, si è stabilizzata, come una sorta di cappa neo-totalitaria, la religione del profitto officiata da grotteschi “sacerdoti” che sostengono la finzione del benessere veicolato dalla gigantesca impostura pubblicitaria secondo la quale saremmo tutti liberi di acquisire ciò che desideriamo e di soddisfare bisogni che tali non sono se non per i nuovi padroni dell’umanità che fittiziamente li creano nei laboratori delle necessità immaginarie.
Insomma, quel che constatiamo, se soltanto riusciamo a far cadere i veli che celano la realtà, è la sovrapposizione alle ragioni dell’essere il “sistema della menzogna” – non diversamente da quel che accadeva, con modalità diverse, nel mondo comunista, come lo denunciarono Aleksandr Solzenicyn e da noi l’indimenticabile Fausto Gianfranceschi – il cui obiettivo è la distruzione della dignità che si fonda sul riconoscimento delle differenze.
Il processo è andato avanti e può dirsi compiuto nel nome di un egualitarismo selvaggio che è la copertura ideologica che i “poteri forti”hanno imposto come cultura dominante della quale l’onnipotenza del web e la dilagante presa sulle coscienze dei social network sono la rappresentazione oscena e immaginifica, allo stesso tempo, del mondo non più come prodotto della volontà, ma soltanto – contraddicendo il vecchio Arthur Schopenhauer – dell’ossessione dei “dominatori” della nostra epoca perennemente in guerra al fine di imporre misure di austerità economiche e sociali per poter meglio e più agevolmente acquisire ricchezze e comprarsi con poche risorse popoli e nazioni e Stati.
Il neo-colonialismo non ha il volto antico di pur rapaci conquistatori di terre nel “nobile” intento di “civilizzare” genti abbandonate a se stesse (in realtà integrate in culture ancestrali e profonde che l’ invasività tecnologica ha distrutto omologandole ad un discutibile occidentalismo regressivo e spiritualmente povero), ma ha le fattezze demoniache della contraffazione del principio di solidarietà spacciata da organizzazioni non governative et similia che sono gli strumenti “umanitari” dei quali i mercanti dell’austerity si servono per spacciare la loro carità pelosa finalizzata ad acquisire consenso attorno alle spericolate imprese finanziarie soggiogando economie ridotte a pascoli abusivi del mercatismo.
A tutto questo si può sopravvivere? Si può immaginare che alla desertificazione morale succeda la rinascita dei valori civili e perciò anche economici? Dunque, è pensabile un nuovo umanesimo che vinca la battaglia finale contro l’egoismo delle caste e ridia voce ai popoli, caratteri alle nazioni, sovranità agli Stati opponendosi al radicalismo nichilista degli sponsor dell’uniformità che trovano adeguate e redditizie sponde nelle congreghe dove si celebrano i riti della democrazia delegata che ha soppiantato la democrazia partecipativa? È forse utopico ritenere che ciò che rimane della coscienza civile dell’Europa possa essere il lievito che faccia crescere la consapevolezza ai quattro angoli della Terra che un’umanità rinnovata ritrovi la strada della rinascita rifiutando il bovino consumismo applicato alla narcisistica realizzazione individuale segnata dal primato del denaro?
Interrogativi che affollano la mia mente mentre ripongo questo singolare “manuale di sopravvivenza” di Riccardo Pedrizzi che mi ha indotto ad una riflessione sulle perniciose conseguenze della modernità che il saggista ha “attivato” con la sua descrizione brillante e l’esegesi esaustiva della caduta verticale del diritto naturale da cui dipendono le distorsioni delle quali siamo vittime.
Chiudendo l’ultima pagina del ponderoso saggio, Il salvadanaio (Guida editori, pp.407, € 18,00), ho la sensazione di ricongiungermi idealmente ad una cultura che ho visto sbiadire negli ultimi decenni fino ad annullarsi completamente in questi miserabili tempi scanditi dalla nullificazione dell’etica, dall’abdicazione della politica, dallo sfregio recato alle memorie ed alle identità delle genti europee non meno che di altre nelle più remote aree del Pianeta. La spietata, lucida, consapevole, documentata analisi che Pedrizzi propone con questo suo studio sulle trasformazioni e le distorsioni della modernità, tanto sul versante economico che in quello etico, è davvero un “manuale di sopravvivenza” che travalica lo scopo per il quale è stato redatto, per presentarsi con lo stile di un “diagnostico” che ha nelle mani un infallibile strumento per penetrare nelle cavità revocate dalla “distruzione della ragione”: la dottrina sociale della Chiesa, derivata appunto dal diritto naturale e codificata da almeno due millenni nella “teologia dell’appartenenza”, altro che quella della “liberazione”.
Nel Salvadanaio ci si immerge e ci si perde nel paradossale ritrovamento delle motivazioni dimenticate di un’umanità confusa, in una selva di temi che per quanto riconducibili all’economia reale fanno parte di una più complessiva “visione del mondo e della vita”. La riflessione di Pedrizzi, sostenuta da una profonda cultura non soltanto economica e giuridica, ma anche filosofica sconfinante nella teologia, è una chiara e sofferta denuncia del “vuoto etico” che “giustifica” la decadenza spinta fino ai confini della barbarie. I lustrini dell’utilitarismo che imbellettano le effimere epifanie di una ricchezza materiale e di una tolleranza culturale e religiosa di cartapesta, ci mostrano la crisi della civiltà nella sua più vivida manifestazione: l’espropriazione della dignità umana, della centralità della persona e della famiglia, l’annullamento del sentimento comunitario, a vantaggio della gloria di potentati che lavorano per l’atomizzazione della società, una sfida di fronte alla quale perfino il magistero ecclesiastico – indebolito dalle incursioni del “fumo di Satana” nella Chiesa, come diceva Paolo VI – non sembra in grado di opporre una resistenza tale da far mutare avviso ai sacerdoti dell’avidità.
Al riguardo, Benedetto XVI ricordava nell’Enciclica Caritas in Veritate: “L’economia, infatti, come ogni altro ambito umano, ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento, non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona”. Non sembra affatto che tale sia l’orientamento degli oligarchi della finanza e della stessa politica che ad essi soggiace, come già presagiva San Giovanni Paolo II censurando il perseguimento del massimo profitto “se si vuole essere di aiuto alla crescita vera ed al pieno sviluppo della comunità”. Considerazioni che inducono il cardinale Gerhard Ludwig Müller, già Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, successore di Joseph Ratzinger, rimosso da Papa Francesco, nella scintillante prefazione al volume di Pedrizzi, a scrivere come “la recente crisi finanziaria poteva essere l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria, neutralizzandone gli aspetti predatori e speculativi e valorizzandone il servizio all’uomo, alla comunità locale e nazionale, invece sembra tornare in auge un egoismo miope e limitato al corto termine”.
Parole dure che colpiscono le consorterie che animano la rottura nelle comunità umane e creano i presupposto del conflitto permanente celato sotto il manto di un progressismo dei diritti funzionale alla cloroformizzazione e sociale. Ma non tutto è perduto. Il cardinale Müller si domanda dove sia la via d’uscita da questa crisi dalle proporzioni morali e materiali probabilmente mai viste dalla caduta dell’Impero romano. E prova a dare una risposta: “Equità, trasparenza, eticità degli interessi… ma in primis un sentimento di imbarazzo, di dolore, di inadeguatezza, da provare, tutti noi, senza ipocrisia quando si pronuncia una parola come ‘povertà’, rispetto all’indifferenza e alla faciloneria di chi ne annuncia l’abolizione per legge”. Non è quest’ultima un’allusione, ma un’accusa chiara ai mestatori di professione che nella crisi nuotano come pesci nell’acqua ancorché torbida.
Pedrizzi, collocandosi sulla stessa linea di pensiero, sviscera con passione unita alla competenza dimostrata nei molti prestigiosi incarichi ricoperti nella sua lunga carriera pubblica, il suo punto di vista che non solo coincide con quello del Porporato, ma lo situa all’interno dei fattori di rischio del collasso occidentale come il mercantilismo, la demonìa economico-finanziaria che provoca, tra gli altri, effetti quali la denatalità, l‘inurbamento eccessivo, la delocalizzazione delle aziende che finiscono per impoverire nazioni un tempo prospere come l’Italia depredata dallo shopping a buon mercato dei nuovi ricchi continentali, d’Oltreoceano e cinesi, dalla diffusione della criminalità legata agli arricchimenti illeciti, dalle contraddizioni insuperate della globalizzazione che ha negato autonomia e differenze ai popoli in ossequio ad un principio di omologazione che ha origini lontane.
Su ognuno di questi temi, e su molti altri, Pedrizzi richiama l’attenzione, come sulla “quarta fase del capitalismo”, il capitalismo della responsabilità. È un obiettivo concreto, secondo l’autore. Ma nelle presenti circostanze dovrebbe essere preceduto da un lavorio morale e culturale i cui presupposti francamente non intravediamo. Ma ciò non ci impedisce di ritenere, con Pedrizzi, che “sarà il principio della responsabilità ad affermarsi: la responsabilità dello Stato di dettare le regole di comportamento sociale, la responsabilità dei singoli di scegliere come applicare le regole a proprio vantaggio tenendo presente il Bene Comune”.
Un ritorno al reale, insomma, dopo le devastanti utopie che inseguiamo per pigrizia mentale e con l’animo rattrappito dal relativismo morale.