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L’autodistruzione (inconsapevole) dell’Europa secondo Giulio Meotti

L’Europa sta morendo, ma gli europei sono distratti, sembrano non accorgersene. E gettano il loro destino come se fosse un’inutile ingombrante carabattola. Conta il presente. Del passato non sanno che farsene. Del futuro non hanno la rbenché minima percezione. È come se si fossero costruiti una prigione che li tiene in qualche modo costretti a guardare attraverso le sbarre ciò che accade intorno a loro, il tempo e lo spazio che si assottigliano.

Diventano irrilevanti, mentre il mondo che era stato costruito da chi li aveva preceduti diventa babelico, preda di interessi famelici, oggetto degli appetiti di nuovi colonizzatori che appartengono ad altri universi culturali ed antropologici. Come nel passato, anche la civiltà europea è destinata a sparire nella maniera più lenta e cruenta: rinunciando ad esistere, a riprodursi attraverso le nascite, abdicando al ruolo che umanamente dovrebbe preservare. Negli anni Venti fece scalpore in Germania e in Italia il libro di uno studioso delle civiltà e della decadenza, Richard Korherr, significativamente intitolato Regresso delle nascite, morte dei popoli. In esso, applicando il metodo comparatistico, Korherr dimostrava come ed in qual misura l’infertilità voluta, programmata, motivata dall’egoismo e dall’assuefazione al soddisfacimento dei fittizi bisogni immediati, abbia fatto precipitare nell’abisso culture che avevano dominato vaste aree del pianeta e contribuito alla formazione della civiltà euromediterranea.

Oggi, nell’indifferenza dei popoli e delle loro classi dirigenti, sta accadendo la stessa cosa per cui non è improprio, né tantomeno allarmistico sostenere che il disfacimento dell’Europa sia legato a due fattori primari: la denatalità e la crisi identitaria. Tanto la prima quanto la seconda sono strettamente correlate e danno il senso al declino su cui non mancano di esercitarsi analisti capaci di scorgere tra le pieghe del malessere europeo quello che sarà l’avvenire di un Continente che anno dopo anno sembra assumere i connotati di una landa desolata nella quale pochi ricercatori tentano di tenere in piedi una certa idea dell’Europa che possa attrarre, con scarse speranze, è il caso di dire, soprattutto le giovani generazioni la cui evidente noncuranza di quello che sarà il loro domani nel contesto geo-politico e culturale che rapidamente sta mutando è il sintomo più doloroso di un declino inevitabile.

Tra gli osservatori più attenti alla mutazione europea da tempo si segnala Giulio Meotti, autore di diversi volumi dedicati agli aspetti della crisi strutturale afferenti alle questioni identitarie e demografiche soprattutto, che con il volume dal suggestivo titolo Notre-Dame brucia. L’autodistruzione dell’Europa (Giubilei Regnani editori, prefazione di Richard Millet. pp.144, euro 13.00), mette a fuoco le ragioni di una catastrofe annunciata da tempo e verso la quale la cultura europea, la politica degli Stati e quella parodistica dell’Unione hanno tenuto gli occhi chiusi.
L’incendio che nell’aprile scorso distrusse buona parte della cattedrale francese è la metafora, per Meotti, della fine dell’Europa.

meotti

 

Quell’evento, che scosse il mondo, non è stato “letto” come meritava: in fondo, per quasi tutti, a cominciare dai capi di Stato e di governo, non si trattò che di un deprecabile incidente. Eppure esso ha avuto e continua ad avere un significato altamente simbolico. Il fumo di Notre-Dame si è portato via un millennio di fede, di tradizione, di storia, di bellezza. Ed in un momento particolare, oltretutto: quando la visione del vuoto si è fatta più nitida, il senso di smarrimento più marcato, la defezione dal culto religioso delle memorie, pratica incivile che tiene le masse europee avvinte all’effimero.

Si ha l’impressione che Notre-Dame continui a bruciare davvero. E se ci vorranno dieci, quindici o vent’anni per restaurarla, poco male: resterà la sensazione che quelle fiamme sono state l’ammonimento tragico per gli europei inconsapevoli che non si avvedono di tante altre distruzioni che giorno dopo giorno attorno a loro creano un allucinante paesaggio di rovine. “Il problema – osserva Meotti – non sarà adesso ricostruire Notre-Dame, ma l’identità che quella chiesa rappresentava. Di fronte alla cattedrale in fiamme piangevamo l’immagine di una civiltà in frantumi. La deliquescenza dell’Europa”.

Ma le lacrime sono state presto asciugate. I sottoscrittori di cospicue somme per il titanico restauro hanno fatto la loro compassata, si sono guadagnati i titoli sui giornali. I politici non sono stati da meno. Le archistar hanno detto la loro. Ma non una voce si è levata per sottolineare che con Notre-Dame è finita un’èra, ben più tragicamente di quando divenne una sorta di succursale rivoluzionaria ridotta da degenerati giacobini a deposito e poi addirittura a Tempio della Dea Ragione. È la coscienza dell’Europa, a dirla tutta – e se vogliamo dell’Europa cristiana – che è bruciata a Parigi. E ancora brucia, per chi riesce a vedere la tragedia che emblematicamente essa ha evidenziato raccontandoci di un mondo che non ha più ragion d’essere, dominato da disvalori che la tecnologia esalta senza porsi freni.

E soprattutto demolisce le fondamenta di una civiltà che si fondava sulla centralità della persona, sulla famiglia naturale, sui corpi intermedi, sulle memorie e sulla fede. Chi può dire che l’incendio di tutto questo non continui, anzi che le fiamme si fanno di giorno in giorno più alte, ma a Strasburgo, a Bruxelles, a Francoforte non le vedono? E non le vedono neppure nel Mediterraneo, mare di civiltà, dove l’umanità è morta per la politica dal respiro corto. Quel che sta accadendo in Europa ha un nome che viene usato spesso a sproposito, ma che Meotti mette nella giusta dimensione: relativismo culturale. Il cui prezzo, scrive “ è diventato dolorosamente quantificabile, al punto che la progressiva decomposizione degli stati-nazione occidentali è oggi una possibilità.

Il multiculturalismo – costruito su uno sfondo di decadenza demografica, scristianizzazione massiccia e di ripudio culturale – non è altro che una fase di transizione che rischia di portare alla frammentazione dell’Occidente. Con il crollo della Chiesa cattolica e i suoi pastori che abbandonano le pecore, il “tradimento dei chierici”, la distruzione della famiglia naturale, la fine delle ideologie e un politicamente corretto che sta facendo tabula rasa di qualsiasi riferimento culturale rimasto, l’ondata di populismo in Occidente non è stato altro che una reazione a questo choc di civiltà”.

Quanto potrà incidere il populismo nella speranza di un’inversione di tendenza? Credo niente. Anzi, da quel che si capisce, sembra votato ad aggravare il problema. Non ha ricette per opporsi alla crisi, non ha orizzonti da indicare, non ha visioni da proporre. È un grido. Dunque, non basta. Ci vuole ben altro. Una politica realistica e di equilibrio fondata su una visione del mondo e della vita coerente con i valori della vecchia Europa, per esempio. Meotti, opportunamente, cita una frase del cardinale Robert Sarah, una delle poche speranze della Chiesa e della rinascita della cristianità: “Un albero senza radici muore, temo che l’Occidente morirà: ci sono molti segni, niente più natalità”, ha detto. Ed è tragicamente vero. Una civiltà che rinuncia alla propria identità e coltiva il mito delle culle vuote come suprema forma di benessere, è una civiltà morta. Una civiltà che si sbriciola come Notre-Dame.

Il grande conservatore americano Russell Kirk in Civilization without religion?, ricorda Meotti, spiegò che nessuna civiltà è sopravvissuta senza una tradizione religiosa. Senza Dio, insomma, non c’è futuro. E se chi dovrebbe indicarci la via dell’eternità ha sostanzialmente abdicato, abbracciando il relativismo, si capisce bene perché Notre-Dame continuerà a bruciare nei nostri cuori.
La grande cattedrale di Parigi è come se fosse lì a ricordarci “ che non doveva rimanere nulla in piedi di una Europa giudicata obsoleta, una Europa assoupie, addormentata. Tutto doveva scomparire. E della nostra identità non doveva che restare una ferita cauterizzata, come dopo quel rogo”.

È vero: siamo in terra incognita, una Terra desolata, per dirla con T.S. Eliot. E quel che è peggio è che non riusciamo ancora a decifrare l’avvenire. Ma una speranza possiamo nutrirla: come San Benedetto da Norcia fuggì Roma all’apogeo della sua decadenza, rinunciando a lussi e dissolutezze, noi possiamo seguire la strada dei padri, riscoprire l’opzione Benedetto, come viene chiamata, rinnegando il determinismo ed il materialismo pratico, trovando in noi stessi la forza che fa nascere nuove comunità. È il messaggio nella bottiglia, da me così interpretato, del lucido, avvincente, drammatico saggio di Giulio Meotti.


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