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Lotta al radicalismo e diritti civili. La ricetta (vincente) degli Emirati Arabi

“Sono cresciuto in una casa senza acqua né elettricità. Tutto quello che abbiamo oggi lo abbiamo realizzato negli ultimi quindici anni”. Ali Rashid al Nuaimi non nasconde l’orgoglio per il percorso che ha portato il suo Paese, gli Emirati Arabi Uniti, a diventare uno dei più tolleranti e multiculturali Stati del Golfo persico, regione dove tolleranza e multiculturalismo non sono certo di casa.

Presidente del World Council of Muslim Communities e di Hedayah, associazione internazionale dedicata all’antiterrorismo, già primo segretario del Consiglio internazionale dei saggi musulmani, al Nuaimi è una personalità di spicco del mondo arabo e un fidato consigliere di uno degli uomini più potenti del Golfo (per alcuni il più potente), il principe ereditario di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed. Dalla Sioi (Società italiana per l’organizzazione internazionale) di Roma il professore sale in cattedra introdotto dal presidente e già ministro degli Esteri italiano Franco Frattini e dal presidente di Coreis Yahya Pallavicini. È l’ospite d’onore dell’evento “Dialogo e sicurezza” organizzato assieme da Sioi e Coreis per raccontare l’esperienza emiratina di contrasto al radicalismo, che ha visto in chiusura la presentazione della mostra “Un incontro raccontato nella storia. Otto secoli di iconografia di Francesco e il Sultano” per celebrare l’anniversario della storica visita di San Francesco d’Assisi presso il Sultano Al-Malik Al-Kamil.

Al di là di ogni considerazione sulla leadership politica (non mancano certo contraddizioni e violazioni frequentemente condannate da Amnesty International), sono le statistiche a fare degli Emirati Arabi Uniti un unicum nella regione per rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. “Il 78% degli studenti della nostra principale università è composto da donne – spiega il professore – nel nostro gabinetto di governo ci sono nove donne e un recente decreto prevede che alle prossime elezioni del Consiglio nazionale in ottobre il 50% dei seggi sia riservato a donne”. Agli occhi di un occidentale può anche sembrare la norma, ma così non è, “viviamo in una regione molto conservatrice”.

Non è altresì scontato che il governo emiratino stanzi fondi per andare a studiare all’estero (lo stesso principe bin Zayed ha studiato a Sandhurst, in Regno Unito), o permetta la convivenza pacifica di più religioni. La storica visita di papa Francesco ad Abu Dhabi dimostra che gli Emirati Arabi, dove vivono quasi un milione di cristiani, rimangono un interlocutore internazionale imprescindibile per rilanciare un non facile dialogo interreligioso con il mondo arabo musulmano.

Dialogo reso oneroso dalle resistenze dell’estremismo islamico cui devono far fronte gli stessi emiratini. “Quando il papa ci ha fatto visita abbiamo dovuto chiudere le scuole per permettere a tutti di prendere il bus e partecipare alla messa. Eppure alcuni media internazionali in mano a estremisti islamici hanno descritto la visita come una scelta del governo emiratino di partecipare alla crociata contro l’Islam – spiega alla Sioi al Nuaimi – la libertà di espressione è sempre giusta ma parole come queste invitano a gesti criminali”.

Il riferimento neanche velato è alla Fratellanza Musulmana, nemico giurato di Abu Dhabi che ricorre quotidianamente nelle denunce del principe bin Zayed. “La Fratellanza continua a reclutare studenti nelle nostre facoltà per convertirli al radicalismo – denuncia il professore alla Sioi – credono di avere il diritto di controllare le persone”. Le accuse ai Fratelli musulmani fanno il paio a quelle rivolte all’Iran e soprattutto al Qatar, avversario numero uno degli emiratini nella regione. Fu bin Zayed, nel 2017, a facilitare l’embargo dei Paesi del Golfo contro Doha convincendo lo stesso presidente americano Donald Trump, su cui si dice abbia grande influenza, a condannare duramente il governo qatariota accusandolo di finanziare il terrorismo internazionale.

Con il Qatar gli Emirati Arabi Uniti sono coinvolti in diverse crisi regionali, sempre in schieramenti opposti. È il caso della Libia, dove il primo sostiene apertamente il premier di Tripoli Fayez al-Sarraj e i secondi (sia pur in via non ufficiale) il feldmaresciallo di Tobruk Khalifa Haftar. Il confronto passa anche dai media internazionali. Come è noto il Qatar ha fondato la più famosa emittente araba al mondo, Al Jaazera, cui gli emiratini fanno concorrenza con Al Arabiya. “I loro media promuovono l’odio contro di noi – dice alla Sioi al Nuaimi – a volte è difficile cogliere il significato dalla versione in lingua inglese, ma non di rado chiedono apertamente di seguire le regole del Califfato”.

Quanto all’Iran, il primo terreno di scontro è nella martoriante guerra in Yemen, cui gli emiratini partecipano con le loro forze speciali assieme alla coalizione saudita contro i ribelli Houthi finanziati da Teheran. Oggi il governo emiratino ha annunciato il parziale ritiro delle sue truppe dalle basi di Kokha sul Mar Rosso e Sirwah a ovest della capitale Sanaa, ma la fine del conflitto è ancora lontana, ammette al Nuaimi. “Gli Emirati ricoprono un ruolo fondamentale nel contrasto dei ribelli supportati dall’Iran”.

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