Lo scrivo con rammarico ma anche con franchezza, ma l’ultimo incontro di lunedì a Palazzo Chigi del presidente Conte con le parti sociali dedicato al Mezzogiorno è parso assolutamente deludente, in primo luogo per le analisi – quasi inesistenti da parte di tutti i partecipanti, sindacalisti compresi – e poi per le proposte fra le quali in particolare mi è sembrata vecchissima quella di una nuova banca per le regioni meridionali che pare riemergere dal trapassato remoto della storia degli interventi dello Stato nel Sud. Peraltro una banca del Mezzogiorno già esiste ed è controllata, com’è noto, da Invitalia, ma sono in pochi ad essersi accorti, almeno sino ad oggi, della sua esistenza e soprattutto della sua operatività.
Qualche domanda da porre ai protagonisti dell’incontro: perché intanto non sollecitare al presidente del Consiglio – perché lo chieda con forza al ministro Di Maio, anche avocando a Palazzo Chigi il relativo dossier – l’emanazione degli atti interpretativi sollecitati da ArcelorMittal Italia per il sito di Taranto, secondo i quali devono essere assicurate le garanzie legali (per responsabilità non ad essa ascrivibili per fatti precedenti la sua gestione) durante l’attuazione del piano ambientale?
Se lo ricorda ancora qualcuno che Arcelor ha detto apertis verbis che se quelle garanzie, cancellate dal decreto Crescita, non saranno assicurate – come lo erano all’atto dell’aggiudicazione del compendio dell’Ilva – il 6 settembre retrocederanno il siderurgico all’amministrazione straordinaria, segnando così la fine della più grande fabbrica manifatturiera italiana? Allora, che senso ha ipotizzare nuovi sgravi contributivi per le assunzioni future nel meridione quando fra sei (ripeto, sei) settimane rischia di fatto di “saltare” il più grande stabilimento manifatturiero del Paese? Ancora: mentre in Basilicata Total, Shell e Mitsui attendono ormai da un anno l’autorizzazione ad avviare le estrazioni petrolifere sul giacimento di Tempa Rossa – dopo avervi realizzato investimenti pari a circa 2,5 miliardi euro, fra i più alti nel Sud negli ultimi 15 anni – il governo ha decretato la non assoggettabilità a dichiarazione di pubblica utilità delle procedure per l’attivazione degli investimenti petroliferi non ancora realizzati in quella regione, il che significa di fatto rallentare, sino forse a bloccarle, nuove estrazioni che potrebbero assicurare all’Italia altro petrolio, e al territorio royalties aggiuntive e occupazione diretta e indotta. E anche su questo punto specifico, Conte e i suoi ministri non hanno proprio nulla da dire alle parti sociali? E che dire poi del blocco delle estrazioni di gas deciso sempre dall’esecutivo nei mesi scorsi, mettendo a repentaglio grandi investimenti anche dell’Eni in Adriatico e nel Canale di Sicilia?
Non è in assoluta, lampante contraddizione tutto questo con le parole di un governo che ormai stancamente dichiara di voler intervenire nel Sud? E i sindacalisti e il presidente Boccia partecipanti all’incontro non avrebbero potuto dirlo a Conte con “garbata” brutalità? Ancora: perché molte opere pubbliche da realizzarsi o da completarsi nel Sud – cui l’ex ministro Delrio aveva assicurato copertura finanziaria – non sono più partite o si sono fermate da tempo? Per le modifiche apportate al codice degli appalti? Per mancanza di progetti esecutivi? O per analisi- costi benefici del tutto inutili come quella sulla Tav? O per ricorsi sull’esito di gare d’appalto? O per quale altra recondita ragione? Il presidente Conte non potrebbe farsi preparare una mappa dettagliata di tali incompiute, o delle opere già finanziate ma non più partite? Ancora: sulle Zone economiche speciali – che ora si vorrebbero prevedere anche al Nord – il presidente Conte non ha nulla da eccepire? E poi ancora, chi guiderà l’attrazione di investimenti nelle Zes del Sud? Le superdelegazioni di tanto in tanto in visita a Dubai, o invece un più utile lavoro capillare, sistematico, instancabile di strutture come Invitalia o l’Agenzia Ice, o anche dei rappresentanti commerciali delle Ambasciate italiane all’estero, sperabilmente in collegamento con i Comitati di gestione delle Autorità di sistema portuali cui è demandato il compito di gestire le Zes?
Allora, per intenderci, chi deve attrarre chi? E dove poi? In territori dove qualcuno vorrebbe far chiudere fabbriche, come ad esempio il siderurgico di Taranto, nella cui gestione al momento è impegnato il più grande produttore di acciaio al mondo? Se malauguratamente ArcelorMittal fosse indotta dal 6 settembre a gettare la spugna, sarebbe interessante verificare quale danno di immagine avrebbe l’area di Taranto – e non solo essa – che pure si candida ad attrarre nuove industrie? O si vogliono invece favorire solo investimenti di mitilicoltori, dal momento che le cozze del capoluogo ionico sono rinomate in Italia e all’estero?
Insomma, l’Italia meridionale ha bisogno che si attui ad horas – ma nell’interesse dell’intero Paese – tutto quello che era stato già deliberato da esecutivi precedenti, e che invece l’attuale governo ha messo in discussione, fermando o almeno rallentando investimenti per miliardi che avrebbero creato nuova occupazione diretta e indotta. E solo dopo si potrà e si dovrà parlare di nuove politiche e di altre risorse da destinare al Sud.