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Perché l’esito della trattativa tra Mise e Arcelor non è scontato

Al termine dell’incontro svoltosi giovedì scorso fra il ministro Di Maio e il top management del gruppo Arcelor il riserbo di entrambi sull’esito del confronto è stato assoluto, anche perché, presumibilmente, si dovrà lavorare ancora a fondo per giungere ad una soluzione che si vorrebbe “condivisa” da entrambi gli interlocutori, pena l’annunciata dismissione del sito di Taranto dal 6 settembre prossimo da parte degli attuali gestori, con tutte le drammatiche conseguenze su occupazione e “tenuta” complessiva dell’economia cittadina e provinciale, e con tutte le ricadute negative su larghe sezioni dell’industria meccanica nazionale.

Nella stessa giornata di giovedì inoltre si è svolto il primo sciopero nello stabilimento ionico dopo il suo passaggio in gestione al gruppo francoindiano contro l’avvio da lunedì scorso della cassa integrazione per 13 settimane per 1.395 addetti, anche se, a ben vedere, il vero interlocutore dialettico della fermata delle maestranze è sembrato essere agli osservatori più attenti il governo più che l’azienda: insomma, si è protestato ad alta voce contro la “nuora” (ArcelorMittal Italia) perché la “suocera” (l’esecutivo) intendesse il messaggio più autentico dei sindacati che erano e sono schierati perché le tutele legali in favore della nuova gestione tornino ad essere assicurate, almeno per il periodo di esecuzione del piano ambientale e solo con riferimento a fattispecie di reati ascrivibili a precedenti gestioni dell’acciaieria.

Nonostante il riserbo assoluto delle parti in causa, tuttavia qualche indiscrezione è trapelata ed è stata ripresa da una autorevole testata economica. La norma allo studio – che qualcuno potrebbe considerare correzione interpretativa, e non come ripristino della vecchia immunità che con il decreto crescita giungerebbe a scadenza il 6 settembre – costituirebbe una tutela legale per l’azienda di fronte a responsabilità chiaramente riconducibili a condotte dei precedenti esercizi, fatto salvo l’impegno dell’attuale gestore a rispettare le prescrizioni del piano ambientale: insomma, tutela contro eventuali colpe altrui nel passato, ma non immunità per le condotte future.

La norma risolutiva dovrebbe concretizzarsi nella sua formulazione ad agosto ed essere inserita, o in un veicolo legislativo insieme ad altri provvedimenti, o in un nuovo decreto Ilva. Ma basterà questa rinnovata impostazione normativa a sterilizzare la pronuncia della Corte costituzionale, chiamata (forse ad ottobre) ad esprimersi su due questioni di legittimità poste dal Gip di Taranto sulla precedente legislazione superata poi dal decreto crescita?

Ma c’è anche dell’altro che potrebbe rendere molto complessa la definizione di un accordo sostanziale fra l’esecutivo ed Arcelor da tradursi poi in atti parlamentari. Intendiamo riferirci all’orientamento di alcuni ministri di voler cambiare i contenuti dell’Aia – in base ai quali l’azienda ha definito poi il suo piano ambientale e i costi relativi – introducendovi la valutazione di impatto sanitario preventivo degli effetti derivanti dall’esercizio del sito ionico: una decisione che, se venisse realmente assunta, introdurrebbe un precedente applicabile a tutte le aziende italiane che fossero sottoposte ad autorizzazioni integrate ambientali, e che potrebbe aprire dispute interminabili e lunghi contenziosi in Tribunale di non facile soluzione. Infatti, se non venisse definita da parte degli organi competenti con rigore scientifico una griglia casistica perché si possano poi stabilire in forme incontrovertibili rapporti di causa ed effetto fra determinate emissioni nocive ed effetti patologici su chi (malauguratamente) li subisse, è facile immaginare dove si potrebbe arrivare, ovvero a bloccare forse per sempre interi cicli di produzione di determinati beni.

E l’industria italiana poi sarebbe l’unica in Europa ad essere sottoposta a valutazioni sanitarie preventive delle conseguenze derivanti dall’esercizio di certi suoi impianti?

Ora intendiamoci bene: parte dell’industria italiana deve ancora incrementare in misura rilevante i suoi investimenti per mitigare al massimo le ricadute nocive di specifici processi produttivi, ma bisognerebbe evitare demonizzazioni aprioristiche di stabilimenti e di industrie che sono ancora oggi il nerbo del manifatturiero nazionale. Lavoro, salute (di operai e cittadini) e ambiente – e non è uno slogan per salvarsi la coscienza, e chi lo pensasse incorrerebbe in pensieri ignobili e spregevoli – devono coniugarsi indissolubilmente in ogni area del Paese. Così come si lavora da anni sulla crescente sicurezza degli autoveicoli cercando in ogni modo e con tutte le tecnologie possibili di limitarne i sinistri, anche se purtroppo in Italia accadono ancora incidenti con qualche migliaio di vittime all’anno. Ma nessuno chiede il blocco della circolazione automobilistica.

Il Siderurgico di Taranto deve diventare la migliore acciaieria del mondo in termini di ecosostenibilità: dovrebbero volerlo tutti, ognuno per quanto di propria competenza e sarebbe auspicabile, a nostro avviso, che anche chi vuole la decarbonizzazione dei suoi cicli produttivi organizzasse un grande convegno internazionale in cui chiamare a raccolta i maggiori esperti mondiali in materia di produzioni siderurgiche per approfondire in tutti i suoi molteplici aspetti un tema molto complesso ma sicuramente affascinante. E senza dichiarare guerre totali contro un grande investitore estero nel nostro Paese ed in Puglia.

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