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Stranger Things e la comunicazione del sottosopra

L’altro giorno, 3 luglio 2019, arso dal caldo mentre facevo ricerche di lavoro mi sono imbattuto in un video. C’era Uan – il pupazzo animato di una famosa trasmissione per ragazzi degli anni 80-90 (“Bim Bum Bam” di Italia 1), che scriveva una lettera. “Cari uanini quando leggerete questa lettera io sarò già partito. Ho deciso di passare l’estate da una cara amica che vive in America. Ho capito che per diventare grandi devo imparare a cavarmela da solo […] adesso devo trovare la mia strada […] anche in questo strano posto chiamato “Indiana”.

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IL RITORNO DI UNA MEMORIA

Cosa stava succedendo? Un cancello temporale si era spalancato e io mi ritrovavo bambino di 12 anni a guardare il pupazzo rosa. Non in un moto di nostalgia. Non c’entra nulla qui il marketing della malinconia. Non un rimpianto dove tornavo indietro nel tempo, piuttosto l’attualizzazione di un vissuto. Era il tempo andato che veniva da me. Il ritorno presente di una memoria.

Poi il bambino insieme all’adulto vedevano qualcosa di strano. Il logo di Netflix campeggiare in alto, su quel video. Cosa ci faceva lì? Incuriosito – visto che sono appassionato di stranezze – mi sono messo a cercare e indagare. E in men che non si dica mi sono ritrovato in mezzo a una esperienza narrativa in cui:
– il logo di ITALIA 1 era capovolto – a causa del “ritorno degli anni Ottanta”
– l’intero palinsesto del canale cosiddetto giovane di Mediaset dedicato agli Eighties
– un altro video di Uan, prigioniero nei segreti laboratori di Hawkins, dove scienziati senza scrupoli portano avanti esperimenti MK-Ultra…

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LA CAMPAGNA DI NETFLIX

Era chiaro, non avevo più bisogno di capire altro. Ero letteralmente immerso in una poderosa campagna di lancio della terza stagione di Stranger Things. Non si poteva sfuggire. Erano stati disseminati tanti story-gate – cancelli narrativi – dove a seconda del tuo media o canale di riferimento ti saresti necessariamente ritrovato immerso in quel racconto di impresa e prodotto oltre che memoria di vita. Era una lezione su come il sottosopra può essere applicato alla comunicazione e al marketing. La narrazione dell’enigma perfettamente orchestrata. Tu, io, adesso: il racconto del vissuto che unisce l’esperienza di marca, o prodotto, con quella delle nostre vite.

Così in tempi di “apocalissi culturali”, dove tutto cambia e ognuno di noi è alla ricerca della sua verità o rivelazione, io ero testimone della mia. Il sottosopra ci chiama. Non per mania di chiasso o volontà di rivolta aggressiva ma come desiderio limite del nostro tempo che ha bisogno di una rivelazione. Un cambio di mindset nel fare comunicazione e narrazione d’impresa che sta avvenendo e che è contraria a tutte le regole del Novecento con le quali siamo cresciuti.

LA COMUNICAZIONE DEL SOTTOSOPRA

Il marketing e la comunicazione del sottosopra, infatti, come ci mostra la campagna di Netflix, implicano:

– Personalizzazione spinta e scelta precisa del pubblico di riferimento. Se non avevi 12 tra il 1983 e il 1999 questa operazione non ti tocca in nessun modo, perché non c’è connessione biografica.
– L’esercizio costante del ribaltamento cognitivo delle categorie di giudizio classiche, come il “mai usare un competitor”. In questo caso, si è scelta addirittura la TV generalista per lanciare un prodotto di nicchia su una piattaforma di contenuti on demand. Il racconto d’altronde può trasformare il buono in cattivo e viceversa.
– L’utilizzo massiccio di archetipi generazionali. Che non vogliono e non devono essere nostalgici piuttosto mirano a riattualizzare un vissuto, ad aprire varchi spazio-temporali in cui viaggiare con le memorie per riviverle. Qui non si tratta di marketing della nostalgia, ma del sottosopra. Del “come in alto così in basso”. Del prendere una posizione nel passato e portarla nel presente, non viceversa.
– Tone of Voice regolato sulle “key emotion” biografiche dei pubblici. In un mondo governato dal “content continuum”, dalla continuità illimitata di contenuti, non sono più i “messaggi chiave” (i key messages) a fare la differenza ma le emozioni chiave e i sentimenti biografici delle audience a cui mi voglio rivolgere – su cui poi vanno progettati i contenuti (in questo caso nessun contenuto promozionale sarebbe passato se non ci fosse stato UAN come testimonial).
– La transmedialità usata come processo seminale. Le diverse iniziative promozionali di Netflix (dai video, ai loghi capovolti, alle cover dei film anni 80) erano sparse come semi nella dimensione onlife delle nostre esistenze. Non avevano bisogno di essere spiegate; ma si rimandavano come una filiera, una all’altra all’interno del grande frame della “stranezza”.
– Disponibilità e voglia di investire nella narrazione di marca e vita. Qui non mi riferisco all’ovvia questione dei budget o dei cashflow, evidentemente importanti. Ma alla volontà di cambiare passo e mindset applicando nuove logiche alla creazione di esperienze di valore che sappiano connettersi in modo biografico ai pubblici di riferimento.

La nostra epoca colma di incertezza, di paura, di radicalizzazione emotiva e di enigmi sul futuro ha bisogno del sottosopra. Dobbiamo aprire questa porta. Come nuova modalità di ascolto, relazione, scoperta, costruzione di identità e valore. Buone “Stranger Things” a tutti.

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