Difficile conciliare i toni e lo stile pacati di Londra con quelli, diretti e spesso poco diplomatici, dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Per questo sono stati in pochi a dichiararsi stupiti dei cabli riservati – resi noti dalla stampa d’oltremanica – con i quali l’ambasciatore britannico negli Stati Uniti, Kim Darroch, ha descritto in modo estremamente critico l’amministrazione di Donald Trump.
IL CONTENUTO DEI MEMORANDUM
Scritti tra il 2017 e il 2019, i memorandum contengono termini forti e valutazioni sulla tenuta della presidenza americana, in generale, sul suo approccio, definito tra le altre cose “disfunzionale” e “imprevedibile”. Ma la parte che dice di più della corrispondenza riguarda una valutazione di Darroch scritta a seguito della missione tenuta da Trump nel Paese il mese scorso, durante la quale il presidente americano ha incontrato la numero uno (dimissionaria) di Downing Street, Theresa May, e anche la regina Elisabetta. In quell’occasione il diplomatico affermò che il Regno Unito, nonostante gli elogi e le pubbliche promesse di supporto – non sarebbe rimasto a lungo “il sapore del mese”, dato che gli Stati Uniti rimangono pur sempre il “Paese dell’America first”.
LA DIFESA DEL FOREIGN OFFICE
Nonostante il forte imbarazzo (e le critiche, come quella del leader dei brexiters Nigel Farage che ha già chiesto il ritiro dell’ambasciatore), il Foreign Office non ha smentito i dispacci di Darroch – approdato a Washington nel gennaio 2016, ossia prima dell’inizio della presidenza Trump – ma li ha, anzi, indirettamente confermati, affermando che l’opinione pubblica britannica si aspetta dai suoi ambasciatori valutazioni senza fronzoli della politica del Paese in cui sono stati inviati. E che le loro opinioni non ricalcano necessariamente la linea di quelle del governo britannico e dei suoi ministri (anche se non è dato saperlo).
LONDRA TRA BREXIT E SPECIAL RELATIONSHIP
Impossibile, in ogni caso, non leggere nelle ultime vicende il forte bisogno di Londra di capire come ridefinire la propria politica estera dopo la scelta referendaria di uscire dall’Unione europea. Se da un lato il Regno Unito sta cercando di tenere aperte più porte (come dimostra, secondo molti esperti, la morbidezza con la quale Downing Street ha affrontato l’eventualità di un’entrata della cinese Huawei nelle reti 5G britanniche, osteggiata tanto da Washington quanto da membri dell’esecutivo e dall’intelligence del Paese), dall’altro, come emerso proprio durante la visita di Stato di Trump, nel post Brexit Londra proverà a ravvivare con gli Stati Uniti una special relationship (dalle radici antiche, ma negli ultimi anni molto affievolitasi) che potrebbe metterla al riparo dai forti scossoni di una navigazione in solitaria in un mondo ormai fortemente globalizzato.
Non è un caso che, nonostante alcune valutazioni pesantissime date proprio da Darroch su Trump rispetto alla crisi con l’Iran (“non sta in piedi” l’affermazione del presidente secondo cui un attacco missilistico nei confronti di Teheran era stato da lui annullata all’ultimo minuto per non correre il rischio di uccidere 150 civili, “è invece più probabile che non sia mai stato pienamente a bordo e che fosse preoccupato che l’apparente dismissione delle sue promesse fatte in campagna elettorale nel 2016 gli si sarebbe ritorta contro nel 2020”, ossia alla prossima elezione presidenziale), Londra abbia invece deciso di assumere una linea hard a sostegno dell’amministrazione, sequestrando a Gibilterra la petroliera Grace 1 contenente materia prima iraniana, col sospetto che fosse diretta in Siria, in violazione delle sanzioni contro il regime di Bashar al Assad. Una mossa che è valsa al Regno Unito il plauso della Casa Bianca e costata una minaccia di ritorsioni da parte di Teheran. Ma che, probabilmente, è frutto di una scelta ben calcolata: che le analisi di Darroch siano giuste ed equilibrate o no, Londra non può, oggi più che mai, fare a meno di Washington.