La Comunità Economica Europea (Cee) cominciò a interessarsi all’Africa sin dalla propria istituzione, anche perché all’epoca erano ancora molti i territori sotto il controllo coloniale del Vecchio continente. Nel 1963 e nel 1969 la Cee sottoscrisse le Convenzioni di Yaoundé sulla cooperazione e lo sviluppo con un numero progressivamente crescente di Paesi africani, un approccio proseguito prima tramite la Convenzione di Lomé del 1975 con il Gruppo degli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (Acp), poi con la Convenzione di Cotonou del 2000. L’idea di una politica comune dell’Unione in un contesto di pariteticità con le controparti africane fu elaborata solo a partire dal 2005, trovando una formalizzazione nel 2007 con la Joint Africa-Eu Strategy (Jaes), un quadro istituzionale che prevede una partnership basata su principi condivisi, priorità concordate e rapporti istituzionali rafforzati.
La Jaes è tuttora il documento che guida i rapporti istituzionali tra Africa e Ue, nonostante il modello proposto sia stato messo in discussione nel giro di pochi anni sia per i limiti impliciti dell’approccio, sia per circostanze geopolitiche quali l’avanzata cinese, la crisi dell’eurozona e i fenomeni migratori. Proprio in merito a quest’ultimo aspetto, l’incremento di arrivi via mare e la conseguente crisi del biennio 2014-2015 ha spinto la Commissione europea a lanciare l’Emergency Trust Fund for Africa (Eutf-A), uno strumento ideato per «affrontare le cause profonde dell’instabilità, della migrazione illegale e dei trasferimenti forzati in Africa» con interventi diretti e ottica di breve e medio periodo.
Una delle problematiche principali nella costruzione di un confronto istituzionale paritetico tra Europa e Africa risiede innanzitutto nell’individuare i soggetti che possano condurlo. Per quanto possa sembrare scontato chiamare in causa le due maggiori organizzazioni continentali, ossia l’Ue e l’Unione Africana (Ua), la questione è in realtà piuttosto complessa.
In primo luogo, Europa e Africa hanno pesi specifici diversi, che si parli di economia, di demografia, di capacità tecnologiche o di proiezione geopolitica: l’Ue e i suoi (per ora) 28 membri hanno un Pil che sfiora i 20mila miliardi di dollari, a fronte di una popolazione di 505 milioni di persone (destinata a diminuire) su circa 4,5 milioni di chilometri quadrati, mentre l’Ua, nonostante 1,2 miliardi di abitanti (con tendenza al raddoppio nei prossimi cento anni) in 55 Paesi e una superficie di 30 milioni di chilometri quadrati, ha un Pil inferiore ai 2.500 miliardi di dollari – ma vanta anche la più grande area di libero scambio al mondo, l’African Continental Free Trade Area (Afcfta), recentemente istituita. A tutto questo bisogna poi aggiungere la diversa natura delle due Istituzioni, dalla composizione (l’Ua non ha organi eletti direttamente) alle competenze, dal grado di sovranità ceduta dai rispettivi membri al ruolo dei capi di Stato e di Governo.
Inoltre, per quanto l’epoca della decolonizzazione sia ormai conclusa, la memoria del dominio europeo è rimasta ben radicata nelle società africane, ripercuotendosi a sua volta con caratteristiche sia di causa, sia di effetto, nelle difficoltà che le due parti manifestano nelle relazioni. Al di là dei lasciti ideologici e morali, da un punto di vista geopolitico è tuttora possibile rintracciare in Africa cesure derivanti dalle diverse vicende coloniali, sovrapposte a livelli di frammentazione socio-politica già di per sé elevati, talvolta acuiti dall’azione di attori stranieri. Circa la presenza europea non mancano casi di Paesi membri che operano autonomamente nel Continente africano, a prescindere dagli interessi di Bruxelles o addirittura entrandoci in conflitto.
Un altro aspetto che limita il dialogo è che la sommatoria di Istituzioni formali in anni di confronto tra Europa e Africa, dalla Convenzione di Cotonou – in scadenza nel 2020 – al Jaes, ha prodotto nel tempo un accumulo di clausole giuridiche, finanziamenti e vincoli che hanno complicato notevolmente le relazioni, caricando sull’Ua aspettative che non possono per il momento essere soddisfatte e attirando sull’Ue accuse di paternalismo ed evanescenza.
La scomparsa di importanti storici leader africani dopo il 2011, le limitate occasioni di confronto politico di alto profilo tra le parti e l’impreparazione delle classi dirigenti locali, inoltre, rende spesso difficile trovare interlocutori affidabili sul posto, cosicché l’Ue ha optato per un cambio d’approccio, soprattutto per reagire rapidamente alle minacce emerse di volta in volta con le Primavere arabe, le guerre in Libia, Mali e Repubblica centrafricana, la violenta espansione territoriale di Boko Haram, l’accentuarsi della crisi nel bacino del Lago Ciad e il picco dell’ondata migratoria via mare – che è poi la causa scatenante delle più recenti iniziative europee in Africa. Bruxelles ha prima provato a intervenire su progetti strategici (come il travagliato finanziamento della Multinational Joint Task Force contro Boko Haram), quindi ha deciso di agire direttamente, sebbene senza una visione organica e senza un reale coordinamento con Addis Abeba. In sostanza l’Ue ha cominciato a cercare partner sul campo, nei singoli Paesi o nelle organizzazioni regionali, come la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas). Un esempio su tutti, il supporto alla Joint Force del G5 Sahel (composta da Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania e Niger, con spinta francese) contro il terrorismo e la criminalità organizzata. Oppure il già citato Eutf-A per la governance delle migrazioni, che si basa su relazioni bilaterali non sempre chiare e che dal 2015 ha impegnato circa 4 miliardi di euro in interventi di breve-medio periodo.
Unendo l’approccio burocratico dell’Ue e la scarsa incisività dell’Ua si crea quindi un circolo vizioso, per il quale il dialogo istituzionale di alto livello tra le due Organizzazioni risulta ingessato dalle reciproche differenze, dalla diversa rappresentatività e dalla mutua diffidenza. Per gli attori coinvolti è più conveniente ed efficace procedere sulla via degli accordi bilaterali, magari amplificando dinamiche a proprio vantaggio, nonostante le conseguenze rischiose in termini sistemici.
Il riferimento più immediato è alla dipendenza africana dagli aiuti, oppure, ancora, alla scelta di non coinvolgere nei processi di cooperazione settori della popolazioni esterni ai circoli di potere, siano essi cittadini, imprenditori o autorità informali, così da evitare anche la grande problematica delle barriere culturali e della necessità di una faticosa opera di sensibilità per la realtà locale.
Non è un caso che da anni la comunità internazionale chieda la fine dei sistemi istituzionalizzati e permanenti di sostegno allo sviluppo, proponendo uno nuovo approccio che si basi su richieste mirate da parte africana e su interventi concordati ad hoc, con una contestuale responsabilizzazione diffusa – un modello in parte già attuato dall’Onu e dalla stessa Ue per quanto riguarda le operazioni militari internazionali nel continente.
Il mutamento degli equilibri politici internazionali, però, impone anche un cambio di paradigma, nella consapevolezza che i destini di Africa ed Europa sono necessariamente connessi. Anzi, considerato che i legami tra le due sponde del Mediterraneo aumenteranno nei prossimi decenni – anche per effetto delle migrazioni, – è fondamentale avviare il prima possibile una governance razionale e strategica dell’interdipendenza. Restando su un livello istituzionale, l’Ue non può limitarsi a delineare i rapporti con l’Africa alla luce del solo sostegno allo sviluppo, ma bisogna concretizzare un passaggio verso una cooperazione basata sugli interessi strategici. Il Continente africano, insomma, deve entrare nell’agenda europea con una prospettiva di lungo periodo che comprenda tutto lo spettro dell’azione comunitaria, dalle migrazioni al commercio, dalla tutela ambientale alla ricerca scientifica. Questo approfondimento dello sguardo europeo sull’Africa – che deve rifuggire le grandi trappole del paternalismo, dell’emergenza come chiave di lettura della realtà e della logica di breve periodo – necessita innanzitutto di visione strategica e pragmatismo.
Nelle relazioni tra i due macro-attori dovrebbe essere posta maggiore attenzione sugli aspetti reciprocamente vantaggiosi da un punto di vista sistemico, a cominciare dal bisogno di favorire la formazione di una vera diplomazia africana, o perlomeno di una dirigenza africana, capace di collaborare in modo organico in un continente nel quale eterogeneità, complessità e fluidità sono elementi costitutivi. La Cina ha compreso perfettamente questa urgenza e sta cercando di manovrarla a proprio esclusivo vantaggio, non solo con l’espansione in Africa dell’imponente progetto One Belt, One Road (Obor) e di una sempre maggiore presenza armata, ma anche con specifici progetti di formazione per amministratori e militari africani, al fine di ottenere un controllo sulla governance degli apparati. Mentre l’Ue corre il pericolo di ridurre le politiche africane alla sola questione dei migranti, Pechino ha avviato un Forum Cina-Africa su Difesa e Sicurezza, promettendo 100 milioni di dollari per finanziare l’African Standby Force.
Sarebbe poi strategico per l’Europa che in Africa prendesse sempre più vigore e autonomia una filiera della conoscenza politica: è in questo modo, sostanzialmente, che si può cominciare a ridurre l’asimmetria tra Ue e Ua, pianificando un percorso davvero paritario che sfoci in una solida ripartizione delle responsabilità e in un dibattito sulle prospettive transcontinentali. Questo passaggio richiede necessariamente la razionalizzazione dei cosiddetti policy framework verso l’Africa (a partire dal Jaes), che ad oggi risultano generici, contraddittori e facilmente aggirabili – e un primo banco di prova potrebbe essere la gestione del post-Cotonou.
Così com’è strutturato, il sistema non è mutualmente vantaggioso e rischia di degenerare in vere e proprie crisi geopolitiche, ancor prima che delle relazioni internazionali. Il modello della cooperazione monodirezionale Nord-Sud ormai genera più dubbi che risposte, anche per le rinnovate sensibilità dell’opinione pubblica internazionale: è qui che dovrebbe essere applicato il principio di pragmaticità, cioè un passaggio dalle relazioni basate sulla dipendenza alle relazioni basate su interessi strategici comuni e interdipendenza. Rivedere i framework significa in primo luogo prendere atto della complessità delle dinamiche contemporanee e favorire l’integrazione nei processi politici internazionali anche di attori non statali e informali. In parte questo processo è già in corso, ma i progetti sono spesso al di fuori di una strategia complessiva e organica, magari chiusi in accordi bilaterali tra Paesi.
Beniamino Franceschini è vicepresidente dell’associazione culturale il Caffè Geopolitico e dottorando di ricerca in Scienze Politiche – Geopolitica all’Università di Pisa