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Il giorno più lungo di Hong Kong. E compare la parola “rivoluzione”

La chief executive di Hong Kong, Carrie Lam, è tornata a parlare davanti ai giornalisti in condizioni di emergenza: per le strade del Porto Profumato infiamma quello che potrebbe essere il giorno più lungo delle proteste iniziate due mesi fa, con uno sciopero generale che implementa i disordini in corso contro l’eccessiva esposizione alla Cina che Lam — e il suo governo locale — stanno dimostrando. Dalle manifestazioni nate per l’avvio dell’iter legislativo di una controversa proposta sull’estradizione, il cuore dei manifestanti è ormai passato a chiedere la democrazia, ossia l’indipendenza completa dalla Cina, a cui l’ex colonia britannica era stata riconsegnata nel 1997 sotto lo schema “un Paese, due sistemi”, che avrebbe dovuto garantire una forma di indipendenza che però gli hongkonghesi vedono via via erodersi.

Il contesto caotico ha portato la Borsa nella peggior striscia negativa degli ultimi 22 anni, con un riverbero sui mercati dovuto al peso internazionale che ha la piazza di Hong Kong, costantemente tra le prime cinque al mondo. L’economia soffre per paura delle conseguenze delle proteste, e Lam non è stata rassicurante. Ha definito la situazione “una rivoluzione”, una parola importante, scelta che potrebbe aprire la strada a soluzioni draconiane. La Cina ringhia. Pechino dice che non starà a guardare, manda messaggi muscolari e militareschi da giorni, che si abbinano bene alla semantica di Lam. 

La Chief Ex ha detto ai giornalisti che il governo “ha già risposto” alle richieste dei manifestanti – intendendo la decisione con cui ha ritirato la legge sull’estradizione – e che a questo punto la rivoluzione sta “rischiando di rovinare completamente Hong Kong” e sta mettendo a rischio “la sicurezza e la stabilità della Cina”. Ha parlato anche di “una serie di attacchi radicali” che stanno creando problemi per la “[nostra] sovranità”, rovesciando il punto di vista: ossia, mentre chi manifesta chiede maggiore indipendenza dalla Cina, e dunque maggiore sovranità in senso assoluto, Lam dice che le manifestazioni alterano la sovranità in essere a Hong Kong – ossia come se la sovranità fosse protetta dal rispetto dello schema amministrativo che la Cina garantisce (è un artificio retorico, evidentemente).

Messaggi chiari: precludono a qualcos’altro? L’ingresso in forza dell’Esercito popolare per sedare le proteste? Intanto Lam nega i rumors sull’imposizione di un coprifuoco monitorato dalla guarnigione locale dell’esercito del Popolo, che un paio di giorni fa ha diffuso un video sulle capacità di gestire le rivolte – altro messaggio chiaro. Ma il punto è: Pechino è disposta all’azzardo del pugno duro? Nessuno al momento ha le risposte a queste domande, sebbene la situazione sia delicatissima. Da una parte è difficile che la Cina voglia rischiare tanto, con i riflettori del mondo addosso. Dall’altra è evidente che l’esecutivo locale hongkonghese stia costruendo la strada con una narrativa che descrive le proteste come moti rivoluzionari – trovando sponda a Pechino, dove si parla di ingerenze esterne dietro alle manifestazioni – che stanno distruggendo il Paese.

Per esempio, è intervenuto anche il ministro delle Finanze, che ha parlato di come la situazione stia sottoponendo l’economia a “una forte pressione al ribasso”. Ma, anche qui, c’è un rovesciamento: la maggior parte degli analisti ritiene che a mettere in crisi l’economia e la finanza di Hong Kong, con potenziale innesco globale, potrebbe essere proprio una qualsiasi mossa aggressiva cinese. La giornata in corso potrebbe essere determinante per il futuro del dossier.

(Foto: Twitter @jesuispoppie, account che segue da dentro le proteste)

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