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Il dovere di un politico? Pesare le parole. L’accorato monito di Mario Giro

Ricordate questa sigla: Lti. Significa Lingua Tertium Imperii: è la sigla che gli specialisti danno al particolare linguaggio del Terzo Reich nazista. Prima di ogni altra cosa i nazisti attaccarono infatti la lingua tedesca, distorcendola e adattandola ai loro torbidi intendimenti. Ci sono libri che spiegano tale deformazione del tedesco, un processo che poi attecchì anche in altri contesti culturali e su altre lingue.

La lingua dei lager ne è stato l’apice: i prigionieri erano “pezzi” (stucke), nemmeno più nemici ma “pezzi” disumanizzati che si potevano bruciare. Essi non mangiavano come uomini (essen) ma come animali (fressen). Nei lager maschili quando erano alla fine divenivano “musulmanen”, assonanza tra musulmani (già disprezzati di per sé) e l’essere vivente divenuto ormai uno zombie senza volontà, carne bruta stretta dall’unico spasmo della sopravvivenza fisica. Germaine Tillon narra che nei campi femminili, alle donne all’estremo delle forze veniva invece affibbiato il termine ironico di “schmuckstucke” che in tedesco significa “oggetti preziosi”. Gli esempi sono moltissimi. Le parole che la Lti utilizzava per definire gli ebrei, gli zingari o i russi oppure i polacchi sono molteplici e tutte rivolte alla loro disumanizzazione.

Quando togli umanità ad un essere puoi ucciderlo e farlo uccidere più facilmente. Con la loro lingua i nazisti trasformavano la realtà a loro piacimento. Allo stesso Hitler piaceva giocare con le parole: lo si legge nelle “conversazioni a tavola”. Ma non si trattava di un gioco: era una tecnica brutale a cui venivano applicati veri e propri specialisti. Talvolta le parole erano scelte per la loro banalità o ambiguità per celare propositi smisurati: come “soluzione finale” celava lo sterminio.

Non ci si può sbagliare: quando la lingua è attaccata, deformata o svilita è l’umanità stessa ad esserlo. Inizia un processo di degrado perché noi siamo anche quello che diciamo. Cambiare le parole serve a far cambiare idea e ad orientare le coscienze in modo surrettizio. Lo hanno fatto tutte le dittature, tutti i regimi genocidari. In Rwanda la predicazione dell’odio che portò al genocidio tutsi è iniziata quando la Radio Milles Collines (quella della “rete zero” hutu che preparò il massacro) iniziò a non utilizzare più il termine tutsi ma “inyenzi” cioè scarafaggi. Si sa come andò a finire.

Per questo quando la lingua è disprezzata, deprezzata o sottovalutata è l’inizio di qualcosa di peggio. A Roma si usa dire “parla come magni” ma è piuttosto vero il contrario: viviamo, mangiamo e ci comportiamo come parliamo. Parlare bene, con moderazione e con misura, non significa far sfoggio di cultura o eleganza. Significa dare il peso giusto alle cose, ai sentimenti, ai giudizi e quindi alla vita. Se un responsabile – soprattutto se un politico ascoltato da molti – usa parole scurrili, ambigue, aggressive o insultanti, è come se invitasse tutti a comportarsi di conseguenza. La lingua produce cultura e dunque vita. Rappresenta lo specchio del pensiero e della sua traduzione in atti.

Non si può accettare nessuna leggerezza su tale questione. Noi italiani sappiamo che la nostra lingua fu un prodotto culturale nato sui libri: non se ne dispiacciano i fiorentini, ma l’italiano non era parlato davvero da nessuna parte quando progressivamente nacque. Dante e gli altri che come lui hanno creato la lingua italiana, l’hanno voluta bella, elegante, raffinata, evocativa. In una sola parola: sofisticata. È una delle ragioni per cui piace tanto agli stranieri: porta con sé un retroterra culturale unico. Oggi si parla tanto di Dantedì e forse occorre rendere “popolare” tale giusta esigenza: chi distorce l’italiano si rende colpevole di trascinare a terra tutta la nostra millenaria tradizione culturale. Non si tratta di un tema da eruditi: ne va di mezzo la nostra comune identità nazionale.

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