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Navigando a fari spenti nella crisi. Giacalone #mustread

Non è (solo) una questione di forma, ma di contenuto, non (solo) di immediatezza specifica, ma di futuro anche economico: la riforma costituzionale che cambia la composizione del Parlamento e le elezioni anticipate immediate sono incompatibili con la ragionevolezza e pericolosissime nella contabilità.

La peggiore (per forma e sostanza) riforma costituzionale fin qui fatta, quella del Titolo quinto, fu approvata l’8 marzo del 2001 (porta la data del 12), immediatamente dopo il presidente Ciampi sciolse il Parlamento e le elezioni anticipate si tennero il 13 maggio, poi il referendum confermativo il 7 ottobre (entra in vigore il 18). La sequenza è quella che oggi vorrebbe Matteo Salvini. Il precedente c’è, dunque. A vincere le elezioni furono quanti si erano opposti a quella riforma.

Qui finiscono le analogie, per due motivi. Il primo è che quella (pessima) riforma non modificava la composizione del Parlamento, sicché che entrasse in vigore prima o dopo le elezioni non era decisivo, oggi, invece, è in ballo una riforma che attiene proprio a quanti e in che collegi vengono eletti, sicché vararla per poi ignorarla è di una singolarità che sconfina nell’oscenità. Il secondo motivo è che i parlamentari, nella misura minima di un quinto, entro tre mesi dalle riforme costituzionali, hanno la possibilità di convocare un referendum, cosa che allora si superò perché a chiederlo fu, immediatamente, una larghissima maggioranza, composta da quanti avevano approvato e disapprovato la riforma stessa. Oggi sarebbe un kamasutra perché: a. i parlamentari in carica chiamerebbero un referendum sulla composizione del Parlamento non di domani, ma di dopodomani; b. se non lo facessero con lo stesso metodo del 2001 verrebbero espropriati di una prerogativa costituzionale, visto che il nuovo Parlamento non sarà insediato entro tre mesi; c. se il referendum cancellasse la riforma avremmo tutti perso tempo, ma se la confermasse vorrebbe dire che gli elettori vogliono un Parlamento diverso da quello che avrebbero appena eletto, talché sarebbe coerente tornare a votare.

Saranno pure formali, ma sono ostacoli che suggerirebbero meno baldanza incosciente. Il contenuto non è da meno perché, se si vara la riforma, ora con il consenso dei parlamentari Pd che si riconoscono nelle posizioni di Matteo Renzi, che circa la riuscita delle riforme costituzionali ha una certa esperienza, senza andare ad elezioni ciò vorrebbe dire la nascita di un governo con una diversa maggioranza, ovvero una convergenza fra M5S e Pd. Il nostro debito pubblico ha raggiunto 2.386 miliardi, nei primi sei mesi del 2019 (dati Banca d’Italia), nel mentre si discettava di diminuzione delle imposte, il gettito fiscale è cresciuto dell’1.2%, il che è avvenuto a economia ferma. Possiamo pascolare quanto vogliamo sui verdi campi della crisi tedesca, ma loro crescono e noi no, il che significa che giorno dopo giorno, inesorabilmente, la distanza fra noi e il resto dei Paesi europei cresce, a nostro sfavore. In queste condizioni: che razza di politica economica potrebbe fare un governo di quel tipo, nel mentre la Lega andrebbe strologando di flat inesistenti e che mai esisteranno? Si mettono a far tagli (il cielo non voglia ulteriore pressione fiscale) nel mentre quelli promettono assunzioni per tutti? Non ci credo manco se lo vedo.

E allora? Allora, se vogliono la riforma costituzionale esistono solo due strade: la prima consiste nel fatto che a esito dei travagli agostani la crisi rientra, con la promessa di riaprirla da lì al giorno appresso, sicché si vota comunque, ma nel 2020; la seconda è quella azzardata da Giuliano Ferrara, ovvero un monocolore contestellato con l’appoggio esterno di quel che resterebbe del Pd, ovvero realismo e cinismo togliattiani. La seconda non sono capaci, mentre per la prima sono capaci di tutto. In ogni caso tenere assieme riforma costituzionale ed elezioni immediate è una via alla Battisti-Mogol: a fari spenti.


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