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Usa fra stragi, armi e campagna elettorale. L’analisi di Alegi (Luiss)

Tra guerre e sparatorie, la contabilità della morte unisce ancora una volta lo storico contemporaneo e il giornalista in un triste richiamo alla realtà. Sotto questo punto di vista, le due stragi che hanno insanguinato il fine settimana a El Paso e Dayton sono solo i più recenti casi di un fenomeno culturale tipicamente statunitense, sul quale non c’è molto da aggiungere a quanto è stato già detto, anche su queste colonne. Dal punto di vista politico, però, ogni caso fa storia a sé, soprattutto in termini di gestione della crisi in vista delle elezioni presidenziali del 2020, ogni giorno più vicine.

La sfida è particolarmente difficile per i repubblicani, che nell’ultimo quarto di secolo si sono trasformati nel “partito delle armi”: non solo nel senso metaforico del sostegno al supposto diritto alla difesa armata individuale, ma soprattutto in quello concreto della trasformazione in elettori dei 5,5 milioni di iscritti della National Rifle Association. Insomma: man mano che le stragi aumentano, tenere separati il dolore per la vittime e la paternità dell’accesso alle armi è sempre più difficile. E questo senza neppure toccare lo scabroso argomento della contiguità ideologica tra gli sparatori e la destra americana, se non addirittura con il suo presidente, suggerito dalla comune retorica della presunta “invasione” messicana.

IL CAPRO ESPIATORIO DEI VIDEOGIOCHI…

Cosa dire, dunque, essendo impossibile tacere? Donald Trump ha scelto di sviare il problema finché possibile, lasciando ai democratici l’onere dell’ennesimo tentativo di regolamentazione delle troppe armi in circolazione nelle case Usa. L’alternativa consiste in una proposta irricevibile. Nel dare la colpa ai videogiochi violenti, il presidente ha di fatto riproposto la linea della NRA secondo cui “non sono le armi a uccidere la gente, ma è la gente che uccide la gente”. Per quanto lo slogan possa sembrare accattivante, la spiegazione non convince su base scientifica: gli studi dimostrano che negli Usa l’uso di armi in azioni criminali è triplo rispetto ad altri Paesi con analoghi livelli di diffusione dei videogiochi, oppure che dove si vendono videogiochi ci sono meno crimini e così via. Il numero di vittime da armi da fuoco nel Regno Unito è, per esempio, 24 volte più basso che negli Stati Uniti.

Dare la colpa ai videogiochi violenti è quindi una sorta di surplace comunicativo, un immobilismo per spingere l’avversario a tentare lo scatto in avanti sul quale contrattaccare. Nel caso specifico, è plausibile che Trump speri che i democratici rispondano che il problema sono le armi per tornare a far risuonare gli slogan “Non lascerò che vi portino via le armi!”, “Difenderò i vostri diritti da chi vuole toglierveli” e altri temi cari all’NRA. Finora, i democratici sembrano non essere caduti nella trappola, limitandosi a ricordare come la proposta di riforma approvata a larga maggioranza dalla Camera dei Rappresentanti giaccia da mesi in Senato, dove il leader repubblicano Mitch McConnell rifiuta persino di calendarizzarla. Anche qui, la strategia è chiara: la bocciatura in aula della proposta democratica renderebbe evidente la responsabilità repubblicana nelle future stragi. Meglio, allora, lasciarla morire in silenzio.

… E QUELLO DELLA MALATTIA MENTALE

Se è difficile dare torto a Trump quando afferma che le stragi sono frutto della malattia mentale, è altrettanto vero che la spiegazione appare strumentale di fronte alla mancanza di controlli sugli acquirenti. Per dirla in altre parole: in tutti i Paesi vi sono persone disturbate ed esistono armi, ma solo negli Stati Uniti le due categorie si incontrano con tanta facilità. La domanda è come ciò sia possibile o, all’opposto, come rendere più difficile che ciò accada.
La risposta si può cercare sul versante delle armi, rendendo il più difficile possibile procurarsi armi senza alcuna forma di verifica sull’acquirente (i cosiddetti “background checks”), come nel caso degli acquisti per corrispondenza o nei mercatini delle armi (“gun fairs”, nei quali è possibile pagare e portarsi via l’arma). Ma si potrebbe anche cercare sul versante sanitario, facilitando l’accesso ai servizi medici e quindi la diagnosi di eventuali disturbi. Nulla di tutto questo esiste nell’attuale sistema statunitense sulle assicurazioni private, i cui meccanismi continuano a essere basati sulla cura anziché sulla prevenzione.

In questo senso, il ricorso ai segnali d’allarme (le cosiddette “red flags”) è al tempo stesso un’ovvietà e un’impossibilità. In assenza di un servizio nazionale sanitario o di salute mentale (e persino, in molti stati, del banale obbligo di visita medica), ad agitare le “bandiere rosse” sarebbero probabilmente le forze di polizia, a loro volta attivate dopo (e non prima) di comportamenti anomali. Altri indicatori quali l’attività su forum estremisti, quale l’ormai noto 8chan, pongono delicati problemi di censura e libertà di espressione e ben difficilmente potrebbero essere utilizzati come base per un’azione preventiva.

IL FINTO SCAMBIO

In alternativa, Trump ha proposto di barattare non meglio specificati limitazioni sulle armi con l’assenso democratico alle restrizioni sull’immigrazione. L’offerta, se così si può chiamare, rientra nel mito di Trump come maestro del negoziato, incarnato nel suo libro The Art of the Deal (“L’arte dell’accordo”, scritto in realtà da Tony Schwartz) e proseguito fino all’autoproclamato successo dell’incontro con Kim Jong-Un.

In termini pratici, per giudicare l’offerta bisognerebbe conoscerne i contenuti, ammesso che ve ne siano. In termini politici, la mancanza di dettagli è l’ultimo problema. Lo scopo è quello di vederla rifiutata o comunque non accolta, per poter quindi ribaltare sui democratici la responsabilità della mancata risoluzione del problema.

Anche in questo caso, finora i democratici sembrano non aver abboccato, in questo caso per questioni più tattiche che di principio. All’interno del partito la lunga stagione delle primarie contrappone chi vuole decriminalizzare l’immigrazione illegale (come Elizabeth Warren e Julian Castro), magari con accesso garantito alla sanità, a chi vuole comunque una qualche forma di controllo e gestione (peraltro già presente sotto l’amministrazione Obama). Dopo una tornata di dibattiti in cui i candidati moderati sono stati accusati di riprendere concetti degli avversari (“Republican talking points”), meglio evitare di trasformare la vaga offerta di Trump in una discussione fratricida.

QUALI OPZIONI PER I DEMOCRATICI?

Per quanto sia evidente il legame tra armi, disagio e retorica politica aggressiva, per i democratici in ultima analisi la sfida è trasformare lo choc diffuso in azione politica. Si tratta insomma di portare gli elettori alla urne e poi di sostenere l’azione degli eletti, evitando di scatenare la reazione preventiva del partito delle armi che farebbe uscire i repubblicani dall’angolo. In effetti, molti sondaggi indicano che una maggioranza della popolazione non condivida la libertà indiscriminata di possedere armi di qualsiasi genere con quantità illimitate di munizioni, ma gli stessi sondaggi dimostrano che la richiesta di regole è preponderante in campo democratico, più limitata in quello indipendente e minoritaria in quello repubblicano.

In quest’ultimo, tuttavia, il legame con la NRA è ormai strutturale e si traduce in una capacità di mobilitazione elettorale anche su tale unico punto, mentre i democratici tendono a presentare una gamma più vasta (e quindi meno efficace) di punti chiave. La NRA sta peraltro vivendo una forte crisi, con tre bilanci in rosso, tagli alle attività di sicurezza per alimentare quelle politiche e un’indagine della procura di New York che potrebbe portare alla revoca del riconoscimento del suo status di onlus. L’associazione è accusata di aver sostenuto lo stile di vita sfarzoso del proprio Chief Executive Wayne LaPierre attraverso la propria agenzia di pubblicità, che poi le rifatturava i costi. È di oggi la rivelazione di un mandato esplorativo per acquistare una villa da sei milioni di dollari ad uso di LaPierre, che già gode di un salario lordo di circa 1,4 milioni di dollari. Quanto questo possa ridurre l’influenza della NRA sulla politica americana è però tutto da vedere.

Il fattore decisivo resta probabilmente quello della manipolazione dell’opinione pubblica e del voto, evidenziato in maniera drammatica dallo scandalo Cambridge Analytica e dagli sforzi per togliere ad ampie parti della popolazione il diritto di voto o per diluirne l’impatto tramite collegi costruiti ad hoc. Si spiega quindi perché i principali candidati democratici restino cauti nell’indicare le armi come fattore essenziale delle stragi, concentrandosi invece sul più tranquillo terreno della critica politica a Trump. Una strategia del surplace che paga nel breve termine, ma che mostrerà presto i suoi limiti.

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