Continua a tirare aria di tempesta tra America e Cina. E, stavolta, al centro della tensione, finisce l’Indo-Pacifico. Ieri, nel corso di una conferenza stampa a Sydney, il segretario alla Difesa americano, Mark Esper, si è infatti espresso molto duramente sulla Repubblica Popolare, affermando: “Gli Stati Uniti non se ne staranno con le mani in mano, mentre una nazione tenta di rimodellare la regione a suo favore a spese di altri, e sappiamo che neanche i nostri alleati e partner lo faranno”. “Crediamo fermamente che nessuna nazione possa o debba dominare l’Indo-Pacifico e stiamo lavorando a fianco dei nostri alleati e partner per soddisfare le pressanti esigenze di sicurezza della regione”, ha proseguito Esper, parlando al fianco del Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, e dei loro omologhi australiani, a seguito dei colloqui strategici che ogni anno avvengono tra i due Paesi. “Siamo inoltre fermamente contrari”, ha concluso il segretario alla Difesa statunitense, “a un modello inquietante di comportamento aggressivo, destabilizzante della Cina. Ciò include armare i beni comuni globali, usando l’economia predatoria […] e promuovere il furto sponsorizzato dallo stato della proprietà intellettuale di altre nazioni”.
L’ANTEFATTO
Queste dure parole si inseriscono in un contesto già abbastanza burrascoso per quanto riguarda le relazioni tra Washington e Pechino. La settimana scorsa, Donald Trump ha minacciato di imporre nuovi dazi su trecento miliardi di prodotti di importazione cinese. Una mossa che ha spinto, venerdì, la Repubblica Popolare a promettere delle ritorsioni. Il presidente americano, dal canto suo, sostiene che Pechino non avrebbe mantenuto l’impegno, contratto al G20 di Osaka lo scorso giugno, di comprare ampi quantitativi di prodotti agricoli statunitensi: un fattore non poco problematico per Trump, visto lo scontento che serpeggia tra gli agricoltori americani a causa dell’attuale guerra tariffaria. Ma il commercio non rappresenta l’unico fronte di attrito tra le due potenze. Con le sue sferzanti dichiarazioni, Esper faceva evidentemente riferimento anche alla postura aggressiva che la Repubblica Popolare sta assumendo nel Mar Cinese Meridionale, dove ha costruito alcune basi navali, suscitando la profonda irritazione degli Stati Uniti. In tutto questo, non bisogna poi trascurare come Washington stia cercando in ogni modo di arginare la crescente influenza geopolitica ed economica del Dragone: non solo – nonostante qualche tensione nel 2018 – la stessa Australia ha progressivamente rafforzato i propri legami con Pechino. Ma anche nell’area del Sudest asiatico questa influenza sta aumentando sempre di più: non a caso, la settimana scorsa Pompeo si è recato al forum Asean a Bangkok, proprio per cercare di allentare le relazioni dei vari Stati partecipanti con la Repubblica Popolare. Del resto, proprio in quell’occasione, il segretario di Stato americano aveva già criticato Pechino, per le sue mosse aggressive nel Mare Cinese Meridionale.
UNA TENSIONE CRESCENTE
Si registra quindi una situazione di crescente tensione, che viene ad inserirsi nel quadro della recente scelta americana di ritirarsi dal trattato Inf. Una scelta formalmente adottata in chiave antirussa ma che presenta un obiettivo principalmente anticinese. Washington non vuole essere vincolata nel confronto militare con Pechino e – in questo senso – considera il ricorso ai missili balistici a raggio intermedio come uno strumento necessario per una efficace strategia della deterrenza contro la Cina. Una strategia che punta a coinvolgere alleati come il Giappone, la Corea del Sud e la stessa Australia. Sotto questo aspetto, è probabile che Washington voglia fare leva proprio sull’aggressività di Pechino nel Mare Cinese Meridionale, per spingere Canberra a mettere in discussione i suoi rapporti con la Repubblica Popolare e abbracciare conseguentemente la linea statunitense. Il punto è che l’Australia non sembra troppo intenzionata a seguire Washington su questa strada: poche ore fa, il primo ministro australiano, Scott Morrison, si è infatti detto contrario ad ospitare i missili statunitensi sul proprio territorio.