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Ambiente e sviluppo, Cianciotta racconta 30 anni di paradossi italiani

I giacimenti non seguono i confini amministrativi segnati dagli uomini. E le riserve italiane potranno essere estratte in tutta serenità da croati, greci, albanesi e montenegrini appena un metro più in là dalla linea immaginaria di confine. Lo aveva scritto a gennaio il giornalista del Sole 24 Ore Jacopo Giliberto, commentando la decisione della Croazia di incentivare le estrazioni di idrocarburi in Adriatico dopo la moratoria del precedente governo Conte, che bloccava le autorizzazioni per 18 mesi. In quelle parole, come nel tweet di ieri di Bruno Vespa (Roma paga per portare rifiuti a Vienna che ci si scalda. Non estraiamo il gas dallo Jonio. Lo fa la Grecia che poi ce lo rivende. È normale?) c’è tutto il paradosso che dagli Ottanta accompagna in Italia il rapporto tra ambiente e sviluppo economico, equazione costruita sulla pancia e mai sull’evidenza dei dati.

Prima il referendum per chiudere le centrali nucleari 1987, come se un ipotetico incidente al confine francese mettesse l’Italia al riparo da una potenziale catastrofe nucleare, poi dal 1992 l’accelerazione sempre maggiore contro le opere pubbliche e la necessità di intensificare i controlli e disciplinare le procedure (Antonio Di Pietro nel 1997 divenne ministro delle Infrastrutture), poi la “deriva” ambientalista con le battaglie dal 2007 in poi contro trivelle e gasdotti, che hanno aperto la strada al no a tutto. In mezzo la Legge Obiettivo (2001), la cui finalità era quella di riportare in agenda il tema delle infrastrutture come leva strategica dello sviluppo. Poco per un Paese che negli ultimi trenta anni ha realizzato solo il 13% di nuove infrastrutture e che, Alta Velocità ferroviaria a parte, di nuove strade ne ha realizzate davvero pochine.

Oggi è il giorno del Friday For Future. Avrei preferito da genitore che mia figlia fosse stata invitata ad un serio dibattito sul cambiamento climatico e sull’inquinamento, con il coinvolgimento degli insegnanti e degli studenti, con istituzioni, media e rappresentanti del mondo imprenditoriale, sindacale e della comunità scientifica. Al contrario il ministro dell’Istruzione Lorenzo Fioramonti esorta irresponsabilmente allo sciopero, arrivando al paradosso di voler chiamare come consulente del ministero Vandana Shiva, che proponeva solo un anno fa di abbracciare gli alberi perché l’energia dell’uomo potesse uccidere il parassita della Xylella in Puglia.

Per aumentare lo stipendio degli insegnanti e contrastare l’obesità infantile, soprattutto dei bambini poveri (ha detto proprio così ad Agorà una deputata di Leu) si vuole tassare le merendine degli studenti; per fare volare l’economia si vuole aggiungere una tassa sui biglietti aerei, e le tasse sulla mobilità si sa sono le più facili da applicare, come nel caso delle accise sulla benzina. Il premier, poi, continua a parlare genericamente di Green New Deal, che da un punto di vista concreto non significa nulla, perché non offre alcuna prospettiva agli investitori potenziali.

Insomma, al di là delle buone intenzioni della vigilia (più della componente del Pd a dire la verità che del M5S), i grillini continuano a screditare la scienza ufficiale, sostenendo la decrescita e alimentando una pericolosa deriva antindustriale. Del resto tra le riserve di chi criticava l’allora Riforma del Titolo V, votata a maggioranza dal centrosinistra del 2001, al primo posto c’era la conflittualità che questa anomala ripartizione di competenze tra Stato e Regioni avrebbe generato (gli oltre 1600 ricorsi alla Consulta sui conflitti di attribuzione e le tensioni sull’Autonomia delle Regioni nascono tutte da lì). E, si sa, nella confusione gli investitori preferiscono andare altrove. E questa volta non devono fare tanta strada, ma spostarsi di qualche metro più in là. In Adriatico o nello Jonio.


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