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Non solo Russia. Le interferenze online della Cina secondo Rosenberger e Cooper

Quando si parla di operazioni d’intelligence che fanno leva sull’uso di informazioni, il pensiero va subito a Mosca, che in questo ambito è nota non solo per la ‘disinformatia’ di sovietica memoria, ma anche per le più recenti accuse americane di aver tentato di influenzare le ultime elezioni presidenziali. In realtà, evidenziano in un interessante commento Laura Rosenberger e Zack Cooper – rispettivamente direttore e co-direttore dell’iniziativa Alliance for Securing Democracy portata avanti dal think tank German Marshall Fund of the United States – sarebbe tempo che Washington si concentrasse in modo sistematico sulle campagne messe in atto da un rivale ben più ingombrante e strategico: la Cina.

OCCHIO A PECHINO

Fino a questo momento, Pechino è stata vista dai servizi di sicurezza americani come un pericolo soprattutto per ciò che concerne la proprietà intellettuale delle imprese e della ricerca militare statunitensi (una preoccupazione nella quale si possono inquadrare i timori di spionaggio associati a Huawei e Zte). Ma negli ultimi tempi qualcosa è cambiato. Complice l’espansionismo cinese ben rappresentato dalla promozione globali dei suoi player delle reti 5G e, forse ancor di più, dall’imponente progetto di nuova via della Seta – un piano non solo infrastrutturale e economico, ma anche culturale, diplomatico e tecnologico – alla Repubblica Popolare viene oggi collegato anche un cambio strategia, che vede nell’utilizzo attivo del cyber space, e non solo nella sua difesa da ingerenze esterne, uno degli elementi principali.

IL PERICOLO DI MANIPOLAZIONE

La Cina, scrivono i due esperti sul Washington Post, “sta utilizzando le piattaforme di social media statunitensi per manipolare il modo in cui le persone in tutto il mondo, compresi gli americani, percepiscono questioni importanti per lo stato-partito”. Proprio come fanno la Russia e altre nazioni autoritarie, con le quali, non a caso, ci sono diversi elementi di convergenza. In questo momento l’attenzione è su Hong Kong (dove pure l’utilizzo della tecnologia da parte della Repubblica Popolare è stato massiccio, come ha raccontato Formiche.net), ma secondo Rosenberger e Cooper non si fermerà lì. Pechino è alla disperata ricerca di uno degli ingredienti che ancora le mancano per ambire, in prospettiva, allo status di super potenza, ovvero il soft power.

SFRUTTARE IL LIBERO DIBATTITO

Per ottenerlo, si evidenzia nell’analisi, è lecito aspettarsi che la Cina utilizzi tutte le possibilità concesse dal libero dibattito pubblico occidentale, insinuandosi proprio nelle sue piattaforme social più popolari, come Facebook, Twitter e YouTube.
Qualche avvisaglia, rilevano i due autori, c’è già stata. A Hong Kong, ma anche oltre i confini cinesi, ad esempo in Australia, a Taiwan e in altri Paesi europei, dove account mirati a interferire per forgiare una diversa opinione pubblica – più confacente agli interessi di attori stranieri malevoli – sono stati ripetutamente chiusi. O, come si è notato, attraverso un utilizzo coordinato dei propri media sotto controllo statale.

LA REAZIONE CHE SERVE

Considerando la pericolosità di quanto sta accadendo, rimarcano Rosenberger e Cooper, si sta facendo ancora troppo poco per limitare i pericoli di queste attività disinformative, che potrebbero aumentare oltreoceano in vista delle elezioni per la Casa Bianca del 2020.
Per i due esperti, è fondamentale che i legislatori “attuino misure che facilitino una maggiore cooperazione e trasparenza da parte delle piattaforme di social media” su ciò che accade al loro interno (annunci politici compresi).
In secondo luogo, il Congresso dovrebbe “fornire al governo meccanismi per facilitare un approccio coordinato e integrato a questo problema, che gli consenta di vedere e rispondere al quadro completo delle minacce”.
Infine, conclude l’analisi, serve aumentare l’efficacia della deterrenza: Capitol Hill “dovrebbe inviare un chiaro messaggio ai governi, alle entità e agli individui stranieri che gli Stati Uniti imporranno costi significativi per le interferenze”. E dovrebbe “sostenere gli sforzi per raddoppiare il coordinamento con gli alleati sulle sfide condivise che affrontano le democrazie” occidentali.

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