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Perché Dibba non preoccupa più. Il mutamento identitario del M5S secondo Malgieri

La “normalizzazione” del Movimento Cinque Stelle, integrato a tutti gli effetti nel sistema che voleva abbattere, è la forma più clamorosa (stranamente poco indagata) di trasformismo politico. Passare dal proposito di “aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno” a farsi tonno, comodamente allocandosi nella scatoletta medesima, non appartiene ai tatticismi o alle strategie partitiche, ma si qualifica come mutamento radicale degli obiettivi e dunque della sostanza del Movimento.

In altre parole, i grillini hanno scelto il potere condiviso con i “nemici” (prima la Lega ora il Pd, LeU e perfino Renzi) per presentarsi come forza di gestione rinnegando la vocazione rivoluzionaria. Dal “vaffa” alla poltrona il passo è stato più breve di quanto ci si potesse attendere. E, per giunta, senza traumi. Le uscite di Di Battista sono assolutamente innocue e non possono impensierire né la dirigenza pentastellata, né l’elettorato che sembra apprezzare la “svolta” immaginandosi radicato nel contesto in cui le decisioni contano più delle manifestazioni di piazza o degli annunci roboanti destinati a restare sulla carta.

Di Maio e soci, con la benedizione di Grillo, si sono talmente integrati nella logica spartitoria da abbandonare, senza alcun rimpianto, la decantata “identità” che ha coinciso, almeno propagandisticamente, con un ribellismo sterile sotto il profilo politico, ma assai redditizio sotto quello elettorale. Fino ad oggi. Facendosi parte della “casta”, il M5S ha abbandonato i temi che lo avrebbero visto posizionato intransigentemente sul fronte dell’alternativa politica, per abbracciare tutto ciò che negava alla vigilia dell’ingresso nel salotto liberal-democratico.

Il voto determinante a favore di Ursula von der Leyen come presidente della Commissione europea, ha sancito la fine della rivoluzione immaginaria durata lo spazio di un mattino e la conversione alle regole avversate per sistemarsi nei piani alti dai quali la partitocrazia non ha mai sloggiato nei convulsi passaggi dalla prima alla seconda ed alla Terza Repubblica. Si può anzi dire, senza tema di smentite, che i grillini hanno imparato in fretta come si occupa lo Stato, ci si impossessa dei suoi gangli vitali, si riducono le istituzioni a dependances di partito senza sedi e senza apparenti strutture (dunque puramente “virtuali”) nelle quali l’ordinaria amministrazione viene svolta utilizzando impropriamente luoghi che nessuno mai, prima dell’avvento pentastellato al potere, si era azzardato a stravolgere.

Le riunioni indette alla Farnesina dal neo-ministro degli Esteri Luigi Di Maio con i suoi colleghi di governo e di partito sono esempi esempi eloquenti di trasformismo strettamente connesso alle logiche partitocratiche. A queste afferiscono, per di più, le nomine, i cambiamenti nelle aziende di Stato, ai vertici dell’amministrazione con i parametri ed i criteri dell’interesse e dell’utilità politica. Da qui alla prossima primavera, infatti, avremo modo di sperimentare quanto la “casta” burocratica venga cambiata da chi, appartenendo ormai alla “casta” politica, s’impaluderà nella ricerca di sostanziali equilibri in competizione con le altre forze di governo per ottenere i migliori possibili risultati.

Nulla di drammatico, nulla di inedito. E, per quanto ci riguarda, sapevamo che la parabola pentastellata sarebbe finita così. Sono le “anime belle” che pur si dicono a disagio nel Movimento che dovrebbero prendere contezza dello stravolgimento promosso dall’oligarchia che domina le scelte politiche e indirizza i gruppi parlamentari, ma questo è affar loro: ci limitiamo a registrarlo.

Non possiamo però far finta di non vedere dove porta il populismo. Chi se n’è fatto banditore, teorizzandolo e praticandolo, fino ad impostare la sua proposta politica nel richiamo alle “ragioni del popolo” ha esplicitamente ammesso, passando da destra a sinistra con una disinvoltura assolutamente inedita, che l’esperienza populista non ha altro sbocco che la conquista del potere. La defenestrazione dell’establishment, la dura polemica contro le èlite, la messa sotto accusa della vecchia classe politica (contro la quale grillini e populisti assortiti si sono “vendicati” come giacobini in sedicesimo) ad altro non miravano se non attuare una sostituzione che forse è la sola rivoluzione, per quanto miserevole, riuscita ai grillini, massa di manovra di chi la casta l’ha combattuta sul serio, vale a dire quei “poteri forti” che hanno di vista la subalternità della politica alla finanza ed alla tecnologia.

Non ci stupiremmo se dovessimo constatare la preferenza del M5S, a completamento della sua trasformazione, per il sistema elettorale proporzionale. È quello che più che si confà ad un soggetto “mobile”, a-ideologico, spregiudicatamente votato ad abbracciare tutte le combinazioni pur di restare nell’area del potere. In fondo se non ci sono idee da difendere o valori a cui riferirsi, tutto è possibile, perfino sostenere che la “povertà è stata abolita” senza neppure immaginare che un miracolo del genere non è riuscito neppure a chi sta al di sopra delle terrene debolezze. Ma i partitocrati ci hanno abituati a digerire ogni cosa. Naturalmente appellandosi al popolo e facendogli credere che il potere decidente è nelle sue mani.

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