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La guerra dei droni (dell’Iran) avrà gravi conseguenze. Ecco quali e perché

Il portavoce dei ribelli yemeniti Houthi ha rivendicato con una conferenza stampa l’attacco di ieri contro gli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais (il primo è il più grande sistema di lavorazione del mondo, di proprietà della Saudi Aramco). Ha parlato di un’azione condotta con droni sofisticati e ha detto che “è uno dei più grandi attacchi compiuti dalle nostre forze” in Arabia Saudita, dove gli Houthi dall’inizio del conflitto in Yemen e dall’intervento saudita per ristabilire l’ordine, era il 2015, hanno colpito più o meno un centinaio di volte. Secondo quanto dichiarato dal portavoce, in questa occasione prima di agire c’è stata “una raccolta di informazioni di intelligence e un monitoraggio approfondito”, nonché un coordinamento con le cellule locali: da ora in poi, dice, “le operazioni si espanderanno ancora”.

Queste ultime parole, presa per vera la rivendicazione (su cui vedremo ci sono dubbi) rappresentano i dettagli fondamentali della dichiarazione. Gli Houthi affermano di aver condotto un bombardamento sofisticato non solo per tipologia/efficacia dei mezzi usati a centinaia di chilometri di distanza (probabilmente un drone Qasef 2F di ultima generazione, quelli del tutto simili agli altri in dotazione ai Pasdaran, chiamati Ababil-T, e in mano anche ai libanesi di Hezbollah, che li chiamano Mirsad-1). Inoltre dicono di essere in possesso di intelligence di qualità raccolta prima dell’azione.

Prima di andare avanti, un passaggio necessario sulle conseguenze provocate dal raid intanto: i danni prodotti sono stati ingenti, le strutture sono componenti chiave dell’economia saudita, la produzione petrolifera di Riad ha subito un colpo severo. La produzione è stata dimezzata perché gli impianti sono stati chiusi del tutto, Riad ha detto di aver già aperto le riserve strategiche e chiesto aiuto agli alleati per far fronte alla richiesta di greggio del mercato globale (gli Stati Uniti hanno già annunciato che sono disposti a usare anche le proprie riserve di petrolio); il prezzo del greggio potrebbe salire; l’attacco destabilizza i processi di quotazione in borsa della Aramco, passaggio cruciale per il piano di differenziazione studiato dal nuovo erede al trono. Dunque sembra logico aspettarsi che lo sviluppo atteso non si limiterà a coinvolgere Houthi e sauditi, ma tirerà dentro l’Iran — che viene considerati  sponsor militare degli yemeniti — e avrà contraccolpi sulla instabilità generale, rendendo la regione più favorevole alle dinamiche che muovono i gruppi terroristici sunniti e sciiti.

Per comprendere la complicazione nel quadro regionale occorre allora accedere a ciò che mette in dubbio la rivendicazione Houthi, ossia a informazioni pubblicate in esclusiva dal Wall Street Journal tramite insider da Washington e Riad: funzionari sauditi e americani stanno indagando sulla possibilità che gli attacchi alle strutture petrolifere saudite abbiano coinvolto missili da crociera lanciati dall’Iraq o dall’Iran.

L’attacco ad Abqaiq e Khurais pare fuori dalla portata degli yemeniti, e sembra suggerire che possa essere stato condotto non da sud (Yemen) ma da nord, dunque dall’Iran o dall’Iraq — in Iraq gli iraniani controllano diverse milizie sciite alle quali nell’ultimo anno potrebbero aver passato missili balistici e da crociera, secondo accuse avanzate dagli Stati Uniti a maggio e dagli israeliani (che negli ultimi due mesi hanno bombardato alcuni trasferimenti di armi dei Pasdaran sul suolo iracheno).

Il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha dichiarato in un tweet che “non ci sono prove che gli attacchi siano arrivati ​​dallo Yemen” e ha accusato Teheran di essere dietro a “un attacco senza precedenti alla fornitura di energia del mondo”. Pompeo, quattro mesi fa, fece saltare all’ultimo minuto una visita a Berlino per volare a Baghdad a informare il primo ministro iracheno che l’intelligence statunitense aveva ricevuto dettagli (dagli israeliani) su un raid del 14 maggio contro un gasdotto saudita lanciato dall’Iraq e non dallo Yemen, e sull’invio, dall’Iran, di missili sofisticati ad alcune milizie sciite irachene. Erano stati piazzati su alcune imbarcazioni, dicevano gli Usa, forse da utilizzare contro asset petroliferi lungo il Golfo — in quei mesi furono colpite alcune petroliere con sabotaggi che secondo Washington, Riad e Gerusalemme sono stati opera dei Pasdaran, ci furono dei mezzi sequestrati con le armi, altri episodi tesissimi, e si aprì la cosiddetta “crisi delle petroliere” che ha portato al rafforzamento della presenza americana nell’area, in collaborazione con inglesi e israeliani.

Il ministero degli Interni saudita ha dichiarato che l’attacco su Abqaiq e Khurais è stato condotto con droni, ma altri i funzionari “del Golfo Persico” hanno detto al WSJ che si sta esaminando la possibilità che siano stati usati missili da crociera, sia al posto che insieme ai droni.

Anche gli Hoithi hanno usato diverse volte missili in passato, spesso Scud non troppi efficaci, ma hanno dimostrato recentemente di avere a disposizione armamenti di livello come il nuovo Quds, anche questo un derivato di un’altra tecnologia iraniana. Quest’estate, due di questi missili da crociera hanno colpito l’aeroporto di Abha, nel sud-ovest dell’Arabia Saudita, vicino al confine con lo Yemen controllato dagli Houthi. Un terzo ha colpito un impianto di desalinizzazione nella stessa parte del paese.

Inutile dire che se Teheran avesse effettuato direttamente l’attacco si creerebbe una nuova sfida per la sicurezza regionale, e allo stesso tempo sarebbe un problema anche per la Casa Bianca, con il presidente Donald Trump che potrebbe essere costretto a far naufragare i piani di un incontro storico con l’omologo iraniano, e forse potrebbe essere anche costretto rispondere colpendo l’Iran. A guadagnarci sarebbe chi vuol mantenere nella regione un costante conflitto a bassa intensità che invece con negoziati Trump-Rouhani potrebbe venire meno creando potenzialmente una nuova architettura di sicurezza generale: gli oltranzisti iraniani, le linee dure a Riad, le anime guerresche rimaste all’interno dell’amministrazione Usa, chi in Israele vuol costruire consensi attorno al tema del nemico. Naufraga certamente anche il tentativo americano di avviare colloqui di pace diretti con gli Houthi con cui mettere fine a una guerra sanguinosa che in Yemen ha devastato la popolazione.

(Foto: Twitter, la conferenza stampa del portavoce degli Houthi)

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