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Il doppio binario dell’Iran. Scatena il conflitto e propone un piano di pace all’Onu

Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha un piano diplomatico personale che al momento non sembra comprendere l’incontro con Donald Trump, comunque non da escludere. Prima di esporlo, val la pena evidenziare che certi annunci rientrano nelle mosse politiche e propagandistiche che permettono a un leader di restare in piedi. Eccolo: il capo di stato da Teheran annuncia che la prossima settimana, quando sarà a New York per partecipare all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, presenterà ai paesi rivieraschi e regionali e all’Onu un piano per garantire la sicurezza del Golfo persico, dello Stretto di Hormuz e del Mare di Oman.

Si tratta di tre delle aree più calde del Paese, infiammate recentemente da diverse operazioni senza intestatario – ma per gli Stati Uniti sono state opera dell’Iran stesso – che hanno visto sabotaggi di petroliere, sequestri, minacce, attacchi al cuore del petrolio saudita, fino a un episodio che una dozzina di settimane fa ha segnato il picco momentaneo della crisi: i Pasdaran hanno abbattuto un drone Global Hawk americano che aveva sconfinato i cieli iraniani nella zona di Hormuz.

“La vostra presenza ha sempre portato dolore e tristezza nella regione. Più vi tenete lontani dalla nostra regione, più conoscerà la sicurezza”, dice Rouhani dando dimensione politica (sovranista, se vogliamo ricondurla a uno schema molto di moda) alla sua proposta. Perché quella “presenza” che contesta è quella straniera nella regione. E chiaramente c’è un’accezione forte rivolta agli Stati Uniti, che recentemente hanno deciso di inviare altre truppe in Arabia Saudita per aiutare gli alleati con la protezione area – dimostratasi debole sabato scorso, quando una pioggia di missili e droni ha colpito i due impianti petroliferi nevralgici dimostrando che Riad non è tecnicamente pronta per qualsiasi confronto militare, nonostante i pesanti investimenti nel settore difesa, fatti anche per compiacere Trump.

Washington, fin dall’inizio delle tensioni – che seguono l’uscita americana dal Jcpoa dello scorso anno, e si sono inasprite con la riattivazione delle sanzioni senza esenzioni nel quadro della “massima pressione” – ha cercato di costruire un proprio fronte. Formalmente doveva essere un sistema di sicurezza anche quello, un tentativo di costruirne un’architettura come era stato in parte (anche se con dubbi successi) il Jcpoa, ma effettivamente aveva una postura anti-Iran. Ne fanno già parte, sebbene in forma contingente e non definitiva, Regno Unito e Arabia Saudita, in modo più laterale Israele, e poi gli Emirati Arabi. Imbarcazioni militari compiono attività di scorta a petroliere in uscita dal Golfo e su quel campo i problemi si sono momentaneamente interrotti (anche perché pare che gli Usa abbiano trovato il modo di hackerare il sistema che permette ai Pasdaran di tracciare le navi).

Teheran rilancia con una sua idea che nei fatti è quasi impossibile, a meno di clamorosi avvicinamenti diplomatici. Il Golfo ha rapporti piuttosto tesi con l’Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi relazioni interrotte (formalmente) e gli altri paesi minori seguono la linea. Con l’Oman c’è una comunicazione continua, e anche con il Qatar, ma senza includere Riad e Abu Dhabi la proposta di Rouhani sembra più una sorta di doppio gioco, utile a seguire una traiettoria pragmatica mentre minaccia i sauditi di attacchi devastanti davanti a qualsiasi ritorsione.

Il presidente iraniano cerca spazi, prova a usare un doppio binario: quello aggressivo e minaccioso per non perdere il contatto con gli oltranzisti interni, quello moderato e dialogante per cercare invece di crearselo un contatto – con Trump in questo caso. Dagli Usa non si è abbandonata del tutto l’idea di un incontro a New York tra i due leader, ma è chiaro che l’attacco al petrolio saudita è un elemento che ha minato il processo di avvicinamento in atto e Trump ha congelato il vertice. Molto dipenderà anche da cosa sono disposti a cedere gli alleati, in una partita in cui per il momento Teheran ha provato ad alzare la voce al limite del possibile – ossia mantenendo il confronto su un livello militaresco, ma sostenibile, un bilico rischiosissimo su cui si sfiora il conflitto aperto.

Ieri il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, ha dichiarato che se verrà dimostrato che gli attacchi contro i due impianti del 15 settembre sono partiti direttamente dall’Iran, e non dai ribelli yemeniti Houthi, sarà considerato “un atto di guerra”. Il capo della diplomazia di Riad ha rilasciato un’intervista esclusiva alla CNN e provato a fare la voce grossa, per ragioni logiche di dissuasione, ma sa che senza il sostegno americano sarà difficile avviare uno scontro vero e proprio. Tant’è che s’è rapidamente affrettato ad aggiungere che comunque il suo paese cerca la “soluzione pacifica”, ossia segue la linea tenuta finora dalla presidenza Trump. “Nessuno vuole la guerra”, ha detto al Jubeir: per primo la Casa Bianca l’anno prima della presidenziali. “Il primo obiettivo americano è evitare una guerra con l’Iran”, ha detto Mike Pompeo, omologo statunitense di Jubeir.

 

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