Skip to main content

Guerra totale. Il rischio del conflitto nel Golfo e l’effetto deterrente

Cautela. Se servisse di usare una sola parola per descrive il quadro generale attorno al dossier iraniano, infiammato dall’attacco contro i due impianti petroliferi sauditi di sabato scorso, “cautela” sarebbe quella perfetta da usare. Gli attori in campo, Riad, Teheran e Washington, si muovono su un contesto generale chiaro: nessuno, per primo il presidente americano Donald Trump, vuole che la situazione finisca del tutto fuori controllo, svicolando in quella che il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif, ha chiamato una “all out war“, una guerra totale.

Siccome nessuno vuole mostrarsi debole, questo clima generale è mascherato da movimenti militari, e a trattati si alzano i toni di una retorica che comunque resta sostanzialmente controllata. Ieri il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, è tornato a Foggy Bottom dopo un viaggio lampo a Jeddah e Abu Dhabi. Il messaggio da dare agli amici americani – soprattutto i sauditi feriti nell’orgoglio e nei piani dell’erede al trono – era di una disponibilità completa e di un’attività emergenziale, ma lo stesso Pompeo ha cercato di rallentare, dichiarando appena dopo la visita a Mohammed bin Salman che per gli Stati Uniti la situazione va risolta col dialogo (pur affermando il diritto di Riad di difendersi come meglio crede).

È una linea fortemente voluta da Trump – che d’altronde, dopo essersi costruito l’immagine del dealer che avrebbe usato la sua arte per negoziare accordi anche con i peggiori nemici, vedi gli incontri (sebbene per ora poco fruttuosi) con la Corea del Nord, non può permettersi di andare in guerra a un anno dalle elezioni di riconferma. Il contrasto con la visione del presidente è costata la testa di un altro consigliere per la Sicurezza nazionale, il falco John Bolton, considerato l’uomo che voleva la linea durissima con Teheran, colui che pensava all’attacco armato. Al suo posto è stato nominato Robert O’Brien, un tecnico delle negoziazioni sugli ostaggi (già impegnato con gli iraniani). È anche questo un messaggio?

A quanto pare, Bolton avrebbe sbottato contro Trump quando ha capito che il presidente stava per accettare un incontro con l’omologo iraniano, Hassan Rouhani, senza precondizioni, ossia aveva fatto capire che avrebbe potuto anche parlare di sanzioni – quelle la cui completa panoplia è stata rialzata quando gli Stati Uniti si sono tirati fuori dall’accordo Jcpoa. Ora le sanzioni – che schiacciano l’economia iraniana sopratutto perché impediscono al paese l’export petrolifero – sono tornate un argomento, perché Trump ha chiesto di stringere ancora di più la cinghia, come riposta agli attacchi agli impianti sauditi; per cui ormai è stato più o meno apertamente accusato Teheran.

L’uscita di Trump era più che altro postura – che serviva anche a sostenere quel “fake news” contro i media che parlavano della disponibilità mostrata nell’approccio a Rouhani). E c’è sempre quel discorso di non sembrare debole: d’altronde, si chiede Foreign Policy in un articolo analitico “cosa c’è rimasto ancora da sanzionare?”. L’economia iraniana è sfiancata, già messa sotto un isolamento quasi totale. Ma la Casa Bianca non può sembrare morbida (nota: gli esperti su FP dicono che comunque “weak“, debole, lo sembra se si aggrappa alle sanzioni sapendo che avrebbero effetti pressoché marginali).

Ma lo schema del sembrare forti è un tema della crisi: gli stessi attacchi agli impianti sauditi potrebbero essere un metodo con cui l’Iran ha cercato di dimostrare di avere capacità e spazi di azione per non arrivare palesemente in ginocchio a un eventuale tavolo di trattative. Pare, secondo le informazioni avute dalla CBS, che in cima alla catena di comando che ha ordinato l’azione potrebbe esserci la Guida, Ali Khamenei. Voleva marcare un segno sull’obiettivo dichiarato di impedire il traffico di petrolio a tutta la regione se Washington avesse impedito quello iraniano, voleva un colpo sonante, chiedeva un’opacità (e per questo sarebbero stati coinvolti i guerriglieri yemeniti Houthi, corsi, con interesse contro Riad, a rivendicare falsamente l’azione).

Cosa c’è da dire ancora su potenziali negoziati, allora? Dalle retrovie del dipartimento di Stato ci arriva un “off the table“, ossia non ci sarà l’incontro tra Trump e Rouhani a New York – fino alla scorsa settimana in fase di organizzazione a latere dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il faccia a faccia che avrebbe dovuto aprire a colloqui più allargati e avrebbe permesso a Trump di stringere la mano a un altro dei nemici degli Usa non è previsto, per lo meno al momento. Però, come quando incontrò per la terza volta Kim Jong-un a luglio, a cavallo del 38esimo parallelo, con Trump non si può dare niente per escluso definitivamente: al Prez piacciono i colpi di scena, e questo potrebbe essere uno di quelli su cui giocare anche parti della campagna elettorale.

Un dettaglio in più: non è chiaro se la delegazione iraniana che arriverà a New York abbia ricevuto i visti necessari per entrare negli Usa. Nei giorni scorsi era stato bloccato un “advanced team“, ma ora serve l’accesso per tutti, funzionari e pezzi grossi tra cui Rouhani e Zarif (che è sotto sanzioni e ha bisogno di proroghe speciali), che dovranno andare al Palazzo di Vetro. Per quello che succederà vedremo. Intanto la notizia più recente arriva dal Pentagono, da dove escono in forma non ufficiale idee sulla possibilità di utilizzare attacchi cyber contro l’Iran come rappresaglia. (perché non si pensi che negoziare significa essere deboli).

 

×

Iscriviti alla newsletter