Skip to main content

No a escalation militare, sì alle sanzioni. I paletti del Congresso Usa su Iran

Quando gli americani vogliono far capire che sono pronti a una guerra usano un’espressione, “locked and loaded“, che dovrebbe servire da deterrente per chiunque intende spingersi più in là del dovuto. L’altro ieri l’ha utilizzata il vicepresidente Mike Pence per mandare un messaggio all’Iran, incolpato per ora indirettamente di aver eseguito l’attacco contro i due impianti petroliferi sauditi quattro giorni fa. L’azione avrebbe superato red lines fondamentali nel Golfo, quelle che riguardano l’assoluta sicurezza da preservare attorno al mondo del petrolio, perché quei reservoir fanno da cisterna più o meno per mezzo mondo, ma forse, come sostiene su queste colonne l’analista dell’Ecfr di Berlino Cinzia Bianco, nella regione si stanno ridisegnando nuove linee rosse: le fazioni oltranziste iraniane stanno provando a spingere oltre la loro contro-pressione verso gli Usa e le loro attività aggressive nel quadrante perché sanno che se riusciranno a mantenere il livello di tensione accettabile potranno innanzitutto captare qualche consenso in più internamento e sopratutto non scateneranno una reazione militare americana.

Usano un presupposto: a Washington nessuno vuole la guerra, per primo il presidente Donald Trump – che ordina però sulla necessità di appesantire le sanzioni su Teheran come ritorsione. Al di là di logiche minacce e posture, la linea è dettata in buona parte dal Congresso, che in questo dossier frena perché tutti temono che la situazione possa scivolare in una guerra aperta, che nessuno – ancor meno la presidenza – vorrebbe l’anno precedente alle elezioni. “Penso sia appropriato vederci e discuterne per arrivare a una linea in maniera bipartisan”, dice il presidente della Commissione Relazioni estere del Senato, Jim Risch, repubblicano dell’Idaho. La speaker della Camera, la leader democratica Nancy Pelosi, ha chiesto all’amministrazione di accedere in anticipo alle informazioni riservate, che sono già state passate a parte dei senatori della commissione esteri.

“L’amministrazione deve informare pienamente il Congresso e se il presidente sta prendendo in considerazione le opzioni militari, la sua prima tappa deve essere Capitol Hill, non Riad”, è invece il commento più velenoso di Eliot Engel, uno dei deputati democratici più importanti. Il riferimento è al viaggio del segretario di Stato, Mike Pompeo, oggi a Jeddah per incontrare l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman – che quando due tra i più grossi impianti della costa orientale sono stati attaccati sabato ha visto bruciare un pezzo della sua più potente iniziativa, quella di privatizzare la petrolifera statale Saudi Aramco e avviare da lì la differenziazione del regno dal petrolio (insieme in realtà bruciava anche la sua linea assertiva contro l’Iran e il rafforzamento militare by Usa per diventare potenza regionale: nei fatti, chi ha attaccato l’Arabia Saudita ha dimostrato che miliardi di dollari di armamenti non bastano per difendersi contro certi attori spregiudicati).

Addirittura c’è chi, come il senatore democratico Tim Kane, chiede di “forzare un voto” per limitare la possibilità del presidente di lanciare attacchi contro l’Iran: si richiederebbe alla Casa Bianca di passare prima per il Congresso. Tutto perché in effetti qualcosa sulla risposta si sta muovendo. Tre i segnali. Primo, a quanto pare le intelligence americane avrebbero raccolto informazioni molto sofisticate sull’attacco. Saprebbero dettagli sulla preparazione, i luoghi di partenza (che sono stati diversi), le  linee di azione, e avrebbero le immagini satellitari a sostegno della ricostruzione. I media americani hanno ricevuto l’imbeccata su un “public show” con cui il Pentagono vorrebbe mostrare tutto.

Secondo, il ministero della Difesa saudita per la prima volta dai fatti s’è sbilanciato e ha mostrato pezzi di missili cruise (iraniani) raccolte nei luoghi d’impatto dell’attacco; ieri sera aveva già detto di avere queste prove del “coinvolgimento” diretto dell’Iran – ed è probabile che siano le stesse informazioni in mano agli Usa, quelle che dimostrerebbero che non sono stati i ribelli yemeniti Houthi, che comunque dipendono militarmente da Teheran, ma proprio i Pasdaran ad agire e dal suolo iraniano.

A tutto si unisce, terzo, il viaggio di Pompeo, che prima passerà dall’Arabia Saudita e poi dagli Emirati, mentre poche ore prima di partire, a Washington, ha ricevuto l’erede al trono del Bahrein. Questi contatti sembrano preparatori e vanno letti così: il Bahrein è il punto logistico di appoggio per eventuali ritorsioni, visto che ospita la Quinta Flotta e una base inglese; Riad è parte in causa, alleato ferito nel profondo; Abu Dhabi è un paese molto ben collegato con la Casa Bianca, colpito nei mesi passati da sabotaggi di cui sono stati accusati sempre gli iraniani, ma che ha finora tenuto il freno sulla crisi del Golfo.

La prossima settimana Trump potrebbe ancora incontrare il presidente iraniano, Hassan Rouhani, a latere dell’Assemblea generale della Nazioni Unite, anche se la Irna ha scritto che un team di contatto partito da Teheran per preparare il terreno per il meeting di New York non ha ricevuto i visti per entrare negli Usa nei giorni scorsi. Sempre la Irna ha fatto uscire una notizia guidata dal governo iraniano che la controlla: Rouhani avrebbe scritto una lettera alla Casa Bianca negando qualsiasi coinvolgimento sull’attacco di sabato scorso – la missiva sarebbe arrivata a Washington tramite il canale di comunicazione svizzero che gestisce i contatti tra Iran e Usa, formalmente senza relazioni diplomatiche da anni.

×

Iscriviti alla newsletter