“Questo governo è certamente atteso alla prova dei risultati che raggiungerà, e in questo dobbiamo tenere a mente che la politica estera è diventata in maniera crescente un vettore in grado di produrre effetti concreti per i cittadini. Chiaro, a patto di selezionare bene i temi, di essere attiva e di scegliere altrettanto bene priorità e alleanze”. È il quadro che costruisce attorno al nuovo governo italiano l’ambasciatore Giampiero Massolo, presidente di Fincantieri e dell’’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), ex direttore generale del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (Dis). Ecco che cosa ha detto in una conversazione con Formiche.net.
Ambasciatore Massolo, secondo il nuovo ministro degli Esteri, il leader pentastellato Luigi Di Maio, l’Italia dovrebbe smettere di guardare a sud solo come un pericolo, ma pensare al continente africano come un veicolo d’interesse per lo sviluppo italiano.
Sicuramente l’Africa ha un valore importante per l’Italia. Per due ordini di ragioni: il primo, parlando appunto di quei risultati che servono al governo per dimostrare la sua validità, è la questione immigrazione. Se pensiamo alla regolamentazione dei flussi, partire dall’Africa è certamente una buona opzione. È ovvio che questa strategia deve essere perseguita attivamente.
Che cosa intende con “attivamente”?
Si devono tracciare i flussi dalle origini fino alle coste: ossia i Paesi da cui nascono, quelli di transito e infine quelli rivieraschi. Questo richiede diplomazia e cooperazione, e sarà necessario attivare partnership fondamentali con l’Europa e con l’Onu, per facilitare insieme politiche attive di stabilizzazione e crescita. In questo, pensando ai Paesi che fanno da rubinetto per le migrazioni, non possiamo non pensare subito alla Libia. È richiesto uno sforzo organico, che deve partire da un uso accorto della diplomazia e delle leve a disposizione dell’Unione europea, e che passa in modo imprescindibile da una politica di alleanze con i partner europei e con gli Stati Uniti.
Parlava di due ordini di ragioni. Qual è l’altro?
Il secondo aspetto rilevante del trattare l’Africa è la grande opportunità che offre dal punto di vista dello sviluppo economico. In questo quadro, secondo la mia lettura dovranno essere favorite le imprese a superare il timore nello scendere al sud del Sahara. Ed è esattamente qui che il governo sarà essenziale nel sostenere verso sud le avventure economico-commerciali italiane. Serviranno contatti di vertice, e promuovere gli investimenti con misure di sostegno idonee, servirà anche in questo caso lavorare con le alleanze. Africa è una parola facile da pronunciare, ma implica una serie di iniziative molto complesse e complete, e se posso aggiungere un ulteriore elemento: il cambiamento climatico, parlo di politiche e tecnologia, una sfida che passa anche dal continente africano.
Le dinamiche africane aprono uno scenario ben più ampio: parlando delle possibili attività italiane nel continente, si è fatto riferimento più volte alla necessità di lavorare in cooperazione in un quadro di alleanze. È un aspetto piuttosto profondo. L’Africa possiamo usarla come esempio: ai tempi della firma del Memorandum fo Understanding con cui l’Italia ha aderito alla Nuova Via della Seta cinese si parlava molto della possibilità di creare cooperazione in Paesi terzi, e si faceva riferimento a potenziali interessi sul territorio africano, proiezione italiana all’interno del quale la Cina è già ampiamente penetrata e in modo fortissimo. Quale dimensione?
Innanzitutto, io credo che vada fatta un’osservazione di fondo, fondamentale: sulla scena internazionale, per un Paese come l’Italia, esistono alleati e partner. E non si possono scambiare gli uni per gli altri. La nostra collocazione è saldamente piantata nel rapporto transatlantico e in Europa. Su questo devo dire che sono rimasto notevolmente colpito dalla forte riaffermazione che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha fatto di questo concetto nel suo intervento alla Camera per la fiducia.
Dopo di che, dobbiamo dire che esistono partnership, e continuando a usare l’esempio dell’Africa, queste possono essere fatte anche con la Cina, che ha già una profonda impronta nel Paese. Ma va fatto un distinguo: noi siamo un Paese europeo, abbiamo un complesso valoriale alle nostre spalle fatto di una storia di diritti e libertà democratici, da cui non possiamo prescindere.
C’è qualcosa oltre il business, dunque?
Diciamo così: certe disinvolture, per esempio l’assenza totale di condizionalità da parte della Cina davanti all’azione di governo di certi Stati africani, non possono giustificare gli interessi. È un limite che se si hanno considerazioni sobrie delle proprie alleanze è difficile da valicare. È qualcosa che riguarda il nostro stare al mondo.
Credo che, in fin dei conti, dovremmo fare più come alcuni dei nostri alleati, ossia firmare di meno e agire meglio. C’è la possibilità di lavorare volta per volta su progetti e situazioni. Esistono spazi in cui il genio italico può trovare sfogo in modo brillante, abbinato a partnership anche cinesi.
Dopo aver citato la Cina e il solco su cui il nostro futuro rapporto di partnership con Pechino, non si può non parlare dell’alleanza con gli Stati Uniti.
È chiaro che i rapporti transatlantici fanno parte dei nostri connotati permanenti. Sono il cuore del nostro interesse nazionale, e devo dire che al di là delle polemiche e della vocalità, i governi che si sono succeduti negli anni non hanno mai abdicato a questo posizionamento.
E questo nuovo esecutivo?
Vedremo. Nella politica estera le parole hanno un senso, gli atti hanno un senso e da questo punto di vista non sono consentite leggerezze.
Un aspetto interessante dell’attuale esecutivo potrebbe essere la capacità del Partito democratico di integrarsi con le visioni che sembrano antitetiche che escono dalla Casa Bianca a marchio Trump.
Qualche settimana fa, su queste colonne, l’ex senatore Pd Nicola Latorre che aveva parlato di “errore grave” trasformare il giudizio politico sul presidente Trump in una nuova stagione di posizionamento internazionale. Qual è il suo giudizio?
Il rapporto con gli Stati Uniti va ben oltre chi esercita pro tempore l’ufficio di presidente americano. Questo è il punto di partenza. Va detto che il carattere transnazionale delle relazioni internazionali, oggi così accentuato, sopravviverà a Trump. In sostanza, ogni Paese conta per il valore aggiunto che rappresenta. Bisogna dunque che l’Italia si strutturi per assumersi responsabilità in proprio e navigare in mare aperto. Appartenere alla Nato e all’Ue certamente è determinante, ma non può sostituire le capacità nazionali, che vanno potenziate. Nulla ci può sollevare dal dovere di saper tutelare in prima persona il nostro interesse nazionale.