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Non solo Russia. Così la disinformazione di Pechino invade il Web

Di Marco Maldera

Quando si parla di disinformazione, ossia della “diffusione intenzionale di notizie o informazioni inesatte o distorte allo scopo di influenzare le azioni e le scelte di qualcuno”, il pensiero corre inevitabilmente a Mosca, complici il retaggio della Guerra Fredda e le accuse di ingerenza russe nelle ultime elezioni presidenziali americane. Tale fatto è confermato da un nuovo report dello StratCom, il centro di eccellenza della Nato dedicato alle comunicazioni strategiche che ha sede in Lettonia e che, analizzando l’evoluzione delle operazioni di influenza in rete, ha identificato la Russia quale mandante di attività volte a diffondere fake news ed elementi divisivi tramite una combinazione di canali vecchi e nuovi, soprattutto in Europa.

MAGGIORE ATTENZIONE ALLA CINA

Tuttavia secondo Laura Rosenberger e Zack Cooper,rispettivamente direttore e co-direttore dell’iniziativa Alliance for Securing Democracy del think tank GermanMarshall Fund of the United States, Washington dovrebbe concentrare maggiormente la propria attenzione sulla Cina. Tale Paese infatti negli ultimi anni sta emergendo con sempre maggiore vigore a livello internazionale sia tramite il suo progetto di Nuova via della Seta – di tipo principalmente culturale, diplomatico e tecnologico e solo in secondo luogodi tipo infrastrutturale ed economico – sia con i suoi player di telecomunicazione globali, con Huawei e ZTE in testa. Grazie alla combinazione di questi elementi, Pechino ha messo in atto un importante cambio di strategia che la vede particolarmente attiva nel dominio cibernetico, testimoniato anche dagli attacchi ai danni dei Paesi che si affacciano sul Mar cinese meridionale.

DIFFUSIONE GLOBALE

L’ultimo esempio in tal senso è relativo alle operazioni di disinformazione miranti a screditare le proteste svoltesi ad Hong Kong che vedono tuttora i manifestanti attivi per tutelare l’autonomia della regione che gode di uno status di amministrazione speciale da parte della Cina. I giganti del web statunitense Youtube, Facebook e Twitter hanno quindi chiuso numerose pagine e bloccato gruppi ed account per via del “comportamento falso e coordinato, parte di un piccolo network che ha origine in Cina e focalizzato su Hong Kong”. Se nella propria indagine Facebook ha parlato di “legami con individui associati al governo cinese”, Twitter ha confermato che tale operazione è stata pensata per “seminare il disaccordo politico” e “mettere volutamente a repentaglio la legittimità e le posizioni politiche del movimento delle proteste”.

Le attività disinformative cinesi hanno travalicato i confini nazionali senza limitarsi all’Australia ed ai vicini asiatici, colpendo diversi stati europei in cui numerosi account volti ad influenzare le opinioni pubbliche locali sono stati chiusi. E se è vero che i concetti di disinformazione e manipolazione sono insiti nella comunicazione stessa, in quanto ogni atto comunicativo viene filtrato dal mittente, è anche vero che tale modus operandi è il primo strumento adoperato dai regimi totalitari, o tendenti al totalitarismo, per la creazione del consenso. È per questo motivo che Pechino trova terreno fertile in Africa in cui, dopo essersi affermata quale principale partner economico e politico di molti Paesi, ne sta adesso sviluppando i media per accrescere ulteriormente la propria influenza sul Continente.

IL REPORT

Secondo un report pubblicato a marzo da Reporter senza frontiere (RSF), organizzazione non governativa e no-profit che promuove e difende la libertà di informazione e la libertà di stampa, Pechino starebbe cercando di esportare il proprio modello giornalistico per influenzare l’immagine cinese nella stampa internazionale al fine di “creare un nuovo ordine mondiale dei media, nel quale il giornalismo dovrebbe essere rimpiazzato dalla propaganda di Stato”. Per ampliare il proprio pubblico, Pechino ha modernizzatola propria programmazione televisiva globale e comprato grandi quote di spazi pubblicitari in media internazionali con il risultato che China Global Television Network (CGTN) va in onda in 140 paesi e China Radio International trasmette in 65 lingue. Ma poiché Pechino vede i giornalisti come uno strumento per diffondere la propaganda di Stato, il Paese fa largo uso di intimidazioni, censura e sorveglianza,altro motivo che lo ha posto 177esimo sui 180 Paesi considerati dal report di RSF, che afferma come il progetto cinese costituisca una “minaccia alla libertà di stampa nel mondo”.

OCCHI PUNTATI SUL 5G

Tramite un sapiente uso combinato di mezzi di comunicazione vecchi e nuovi quindi, Pechino sta tentando di crearsi un’immagine positiva agli occhi del mondo al fine di aumentare ulteriormente la propria capacità di influenza e di soft power, elemento necessario per ambire al ruolo di superpotenza.

Poiché la Cina può intraprendere tali azioni grazie al libero dibattito garantito dall’Occidente e dai paesi liberali, questi dovrebbero seriamente prendere in considerazione tale realtà dotandosi dei necessari strumenti, anche di deterrenza, per contrastare questa narrativa ed ottenere maggiore “cooperazione e trasparenza da parte delle piattaforme di social media”. Con i suoi principali player di ICT Pechino è infatti impegnata nella corsa al primato al 5G, il prossimo standard di comunicazione che permetterà, tra le altre cose, la creazione dell’Internet of Things e quindi a miliardi di dispositivi di connettersi in rete ed interagire tra loro e, potenzialmente, di estendere globalmente la disinformazione ad altissima velocità.

Traendo insegnamento dall’antico trattato di strategia militare attribuito a Sun Tzu per cui “Chi è veramente esperto nell’arte della guerra sa vincere l’esercito nemico senza dare battaglia […]”, Pechino sa che il dominio cibernetico e quello delle nuove tecnologie sono i campi in cui dover primeggiare.

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