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Accuse di Pechino agli Usa per Hong Kong. Paranoia, propaganda, interessi?

Il tentativo di internazionalizzare la crisi da parte dei manifestanti di Hong Kong apre spazi per la propaganda cinese. Da giorni, Pechino ha rafforzato la linea con cui accusa gli americani di essere i fomentatori delle proteste e di spalleggiare più o meno direttamente chi scende in piazza.

Secondo la narrazione del governo cinese, è stata la Cia a coordinare l’inizio delle dimostrazioni pubbliche, in cui però in realtà, al di là della disinformazione cinese, i cittadini dell’ex colonia britannica hanno sfogato il proprio malcontento per la cinesizzazione del Porto Profumato – un processo irreversibile, che li sta mandando contro a un futuro inesorabile di sottomissione a Pechino (“la Cina ha rubato il futuro ai cittadini di Hong Kong”, diceva su queste colonne Alberto Forchielli), perché su quel territorio la New Era di Xi Jinping ha piantato le radici per interessi strategici come la Grea Bay Area.

Foreign Policy l’ha chiamata la “paranoia con cui Pechino vede la Cia sotto ogni sasso”, in un articolo in cui si analizzava uno dei fatti che i cinesi usano come teorica prova per avvalorare le proprie tesi complottiste: l’incontro tra la funzionaria del consolato americano di Hong Kong, Julie Eadeh, e alcuni manifestanti tra cui Joshua Wong, uno dei leader del Demosisto, partito che chiede democrazia e su questa linea ha spostato il cuore delle proteste.

L’episodio di inizio agosto è stato oggetto di uno scambio di accuse pesanti tra Washington e Pechino, con questi ultimi che avevano messo in circolazione informazioni riservate sul conto di Eadeh – violando i protocolli internazionali sul trattamento dei diplomatici – e gli americani che li accusarono di essere un “regime criminale”.

Ora Wong è in Germania, da dove ha chiesto che l’Europa condanni le “brutalità” che la governatrice scelta dalla Cina, Carrie Lam, ha avallato come metodi polizieschi per sopprimere le proteste. Ha chiesto anche che l’Ue sospenda il proprio business con Hong Kong come forma di ritorsione, ma il suo tentativo ha sbattuto contro un macigno: la borsa di Hong Kong, controllata dalla Cina, vuole acquistare il London Stock Exchange Group, ossia la borsa inglese che controlla anche Piazza Affari italiana.

È la sovrapposizione di affari economici a faccende politiche che dà forza a Pechino su certi interessi. Il governo cinese s’è abbattuto contro la cancelleria perché il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Mass, avrebbe concesso una stretta di mano a Wong. Nel piano cinese di usare gli ambasciatori nei vari Paesi per diffondere la linea del Partito su Hong Kong, la feluca a Berlino ha detto che quello spazio diplomatico concesso al 22enne hongkonghese potrebbe avere “conseguenze negative per i rapporti bilaterali”, che in questo momento tra Cina e Germania sembrano diventare sempre più intensi.

Il diplomatico cinese è tornato a chiamare i manifestanti come “criminali” e “terroristi”, semantica scelta da Pechino per creare uno spazio di manovra all’interno del quale costruire la possibilità di chiamare lo stato di emergenza. Termini simili a quelli usati dall’ambasciatore in Italia, che aveva convocato a Roma una conferenza stampa per diffondere la propaganda sul coinvolgimento americano dietro alle proteste.

Nei prossimi giorni, Wong sarà negli Stati Uniti, dove incontrerà diversi media e sarà ricevuto dal senatore Marco Rubio. Quella diventerà una nuova occasione per Pechino per battere sulla linea del coinvolgimento americano. Tanto più che il Congresso ha già avviato il percorso legislativo una proposta bipartisan per bloccare la vendita di gas lacrimogeno a Hong Kong.

All’inizio di agosto, un portavoce del dipartimento di Stato americano parlando al New York Times disse una cosa piuttosto sensata: “Non è credibile pensare che milioni di persone siano manipolate per [scendere in strada] a difendere [le richieste per avere] una società libera e aperta”. Ma per Pechino queste ricostruzioni fasulle sono utili per mettere i propri avversarsi sulla difensiva, spostare l’attenzione su quello che accade, e soprattutto per incoraggiare i cittadini cinesi a vedere i disordini a Hong Kong non come risultato della riluttanza del Partito Comunista ad abbracciare le necessarie riforme politiche, ma piuttosto come il prodotto dell’Occidente— in particolare le macchinazioni americane.

(Foto: CCTV, la portavoce del ministero degli Esteri cinese durante l’ultima conferenza stampa con cui Pechino accusa gli Usa per le proteste di Hong Kong)

 

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