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Pressing Usa su Europa (e Italia). Cosa ha detto Pompeo a Sassoli

Al di là dei classici convenevoli e dichiarazioni di copertina, nel comunicato ufficiale che il dipartimento di Stato ha diffuso dopo l’incontro di ieri tra il segretario Mike Pompeo e il presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, ci sono due sottolineature interessanti che, in forma indiretta, diventano un messaggio da recepire per il neo governo giallorosso italiano (un esecutivo che non ha ancora giurato ma già si trova davanti del terreno da recuperare causa indecisioni e posizioni sghembe precedenti, e stasi durante la crisi, ma soprattutto è chiamato a rovesciare certe aspettative non proprio ottimistiche). Foggy Bottom sottolinea infatti che tra Pompeo e Sassoli si è parlato di come rafforzare la cooperazione transatlantica sia in termini economici sia nel quadro della sicurezza, ma ci sono stati due dossier che hanno ricevuto un’attenzione particolare: il Venezuela e lo Xinjiang.

La crisi venezuelana prosegue a scatti. Washington ha investito fin da subito sul tentativo del leader dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó, di rovesciare Nicolas Maduro, erede del regime chavista che ha letteralmente affamato il suo popolo. Gli Stati Unito hanno appoggiato la mossa di Guaidó di mettersi alla guida del paese ad interim per portarlo a nuove e più limpide elezioni, e si sono portati dietro l’allineamento della quasi totalità dei paesi europei e delle istituzioni Ue, che nel difendere il presidente autoproclamato hanno colto l’occasione per rimarcare quei valori universali su cui si fondano le democrazie liberali e si fondono le visioni transatlantiche.

Tra i pochissimi paesi europei che non hanno riconosciuto Guaidó, ma mantenuto una posizione equilibristica c’è l’Italia, precedentemente divisa tra una linea a favore della Lega e quella più scettica del M5S. Riuscirà adesso il Pd, di cui Sassoli è esponente, a far prendere al governo una posizione più chiaramente orientata sulle traiettorie atlantiste storicamente percorse dall’Italia? Non è chiaro. Mentre a gennaio Sassoli (ancora europarlamentare semplice) accoglieva con favore il riconoscimento di Guaidó da parte dell’assiste di Bruxelles, con un voto a larga maggioranza e con l’allora presidente Antonio Tajani che commentava che “l’Europa unita deve essere dalla parte della libertà del popolo venezuelano”, alcuni esponenti del Pd si astennero, come fecero grillini e leghisti. La posizione dei frondisti (Brando Benifei, Goffredo Bettini, Renata Briano, Andrea Cozzolino e Cecile Kyenge) simile a quella dell’ex sottosegretario agli Esteri grillino, Manlio Di Stefano, era stata criticata dall’ex segretario Maurizio Martina e giudicata “gravissima” dagli ambienti vicini a Matteo Renzi, che hanno visioni più pro-Guaidó. La sottolineatura del dipartimento di Stato dice che Pompeo e Sassoli hanno discusso di come implementare l’aiuto a Guaidó e facilitare la transizione democratica venezuelana, concetto già sottolineato nei mesi scorsi dall’ex Lady Pesc (quota Pd) Federica Mogherini, su cui però l’Italia è chiamata a prendere una posizione chiara.

L’altro tema è altrettanto delicato. Lo Xinjiang è la provincia della Cina nord-occidentale in cui il Partito comunista di governo ha avviato un controverso piano di rieducazione culturale che ha come principale oggetto gli uiguri, etnia turcofona di culto musulmano sunnita che ha presentato in passato irrequietezze. Ci sono svariate condanne internazionali, guidate dagli Stati Uniti, e c’è stata una inusuale posizione ufficiale molto critica del Consiglio sui Diritti umani dell’Onu, severo sulla illegittimità delle politiche cinesi, considerate repressive e discriminati, simili a una pulizia etnica. A luglio, durante la riunione del Consiglio, è stata redatta una dichiarazione in cui ventidue stati hanno chiesto alle Nazioni Unite di intervenire sulle detenzioni di massa da parte della Cina con una risoluzione. Altri trentasette paesi — tra cui Pakistan, l’Arabia Saudita, ma anche Russia, Corea del Nord, Venezuela, Cuba — avevano preso una posizione in difesa di Pechino, lodando addirittura le attività nello Xinjiang (alcuni di questi firmatari non erano membri del Consiglio). È il gioco di lobbying cinese: molti di quei paesi hanno collegamenti con il business politico del Dragone. Dalla questione non è esente l’Italia, che non ha firmato la dichiarazione depositata dai ventidue l’8 luglio, come fatto per esempio dai paesi del sistema “16+1” (ossia gli europei che più sono dentro al network geopolitico-infrastrutturale con cui la Cina si vuole collegare all’Europa). Funzionari della Farnesina avevano fatto sapere al Foglio che una seconda, successiva versione era stata avallata in calce anche da Roma, allontanando i sospetti che il coinvolgimento con Pechino legato all’adesione alla Belt & Road Initiative avesse potuto portare il governo italiano ad avere una posizione eccessivamente morbida con la Cina.

Ora Pompeo, che è in viaggio in Europa in un pressing che coinvolge anche il capo del Pentagono, sta insistendo su certe questioni che passano dal tema dei diritti e arrivano fino alla politica e geopolitica profonda, in un momento in cui Washington vuole riaffermare la linea comune con Bruxelles. La posizione sul Venezuela è anche una posizione severa verso le interferenze russe (che sta dietro a Caracas), per esempio; quella sullo Xinjiang una linea sul comportamento cinese che con la forza dell’economia tenta di sfregiare anni di pensiero liberale e democratico costruiti con fatica. L’Italia giallorossa, parte dell’Ue, è già chiamata a ritornare su un solco più classico – in questo caso dettato da Washington in partnership con Bruxelles – rispetto a certe visioni espresse dall’esecutivo precedente. Non è un compito facile, vista la quasi totale assenza di temi come politica internazionale, difesa e sicurezza nazionale nel programma politico diffuso dai due nuovi alleati.

(Foto: Twitter, @SecPompeo)

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