Prima occorrevano armate e caccia, oggi con un drone e un gruppetto isolato e mediamente rifornito si può portare un attacco come quello subito dagli impianti sauditi di Aramco. E’la riflessione che Massimo Nicolazzi, manager con alle spalle una solida esperienza nel settore degli idrocarburi, (Eni e Lukoil), affida a Formiche.net ragionando sugli sviluppi dell’attacco. Sviluppi che investono non solo il possibile aumento del prezzo del barile, che ancora non c’è stato, ma soprattutto gli equilibri di Iran, Arabia Saudita e Usa.
Nicolazzi, Presidente di Centrex Italia SpA e Senior Advisor del programma di sicurezza energetica Ispi, ha scritto diverse pubblicazioni ed è membro della rivista geopolitica italiana “Limes”. E’uscito per Feltrinelli in questi giorno il suo libro “Elogio del petrolio”.
Quale la prima conseguenza economica degli attacchi ai pozzi sauditi, al netto del fatto che il prezzo di un barile è ancora al di sotto dei 70 dollari?
Secondo me per ragionare di conseguenze economiche è ancora troppo presto. Se il prezzo non salirà sopra i 70 dollari, allora tenderei a dire nessuna. Quest’anno siamo andati sopra gli 80 dollari al barile in alcuni giorni e la cosa è stata assorbita benissimo. Non mi sembra che sia un tema principalmente economico quello all’ordine del giorno, salvo strappi improvvisi. Non dimentichiamo che per più di tre anni abbiamo vissuto con un prezzo stabilmente sopra i 100 dollari.
C’è una correlazione tra le elezioni israeliane, gli attacchi a Saudi/Aramco e l’effetto petrolio?
Vedo un’altra cosa, inforcando lenti prettamente petrolifere: c’è una sovrabbondanza di greggio e negli anni c’è stata una crescita della dipendenza dalla rendita da greggio dei Paesi produttori. Ciò faceva sì che in termini di sicurezza noi non avessimo problemi di approvvigionamento, perché i produttori avevano perso la libertà di non vendere. E non vendendo avevano problemi di welfare, quindi pensioni e consenso sociale.
Il combinato disposto tra pressione militare e mancata ammissione di Teheran si adatta anche a una strategia per aumentare il potere contrattuale dell’Iran prima di possibili colloqui alle Nazioni Unite?
Qui di fatto è stata bloccata la vendita di uno dei principali Paesi produttori, ovvero l’Iran, e in una situazione di questo genere che si rischi qualche fuoco di artificio mi sembra anche una cosa abbastanza normale. Stiamo parlando della reazione di un Paese che è stato messo in una situazione di fortissima compressione economica dalle sanzioni.
Gli arabi però chiedono aiuto all’alleato americano. Si rischia o no l’escalation?
Tutto è possibile. Si ricorda la sera dell’attentato di Sarajevo? La storia ci dice che in tutte le sedi diplomatiche erano molto scocciati perché gli andava a monte il fine settimana. E poi c’è stata la prima guerra mondiale. Qui stiamo parlando di un governo, quello iraniano, messo sotto pressione anche per quanto riguarda il welfare interno, e di un governo, quello Usa, molto più incline al poker che al ragionamento euclideo.
Le infrastrutture saudite appaiono troppo vulnerabili?
Questo attacco ci dice che il paradigma della sicurezza sta cambiando profondamente. Noi c’eravamo abituati, dallo shock del 1973, a ragionare in termini di sicurezza dell’approvvigionamento. Invece oggi dobbiamo fare i conti col fatto che l’approvvigionamento è tendenzialmente abbondante, per cui il tema è quello della sicurezza delle infrastrutture e diventa il tema dominante nel momento in cui la tecnologia consente l’aggressione low cost a qualunque infrastruttura energetica.
Ovvero?
In passato era necessario inviare i caccia o i bombardieri, oggi è sufficiente un gruppo isolato e mediamente rifornito per rendere possibile un attacco. E non vale solo per il petrolifero, bensì anche per le rinnovabili. La centrale solare termica costruita in Marocco è un gioiello che potrebbe essere tirato giù con un semplice drone. Quindi è l’infrastruttura energetica large che diventa il problema dal punto di vista del mantenimento della sicurezza, vista la presenza di tecnologia di attacco a basso costo e manovrabile come una play station. Noi abbiamo ancora una cultura di difesa basata su guerra, esercito e armate: non funziona più così.
L’attacco è anche un colpo ai piani del principe Bin Salman?
Fossi un iraniano ragionerei così: se dovessi leggere l’attacco in maniera opportunista direi che bloccando la capacità di produzione e di esportazione altrui, magari mi ricomprerebbero il mio greggio. E non è detto che il ragionamento sia giusto. Quanto poi questo sia antagonista nelle strategie saudite per il futuro, per adesso legittima un ulteriore ritardo dell’attesissima Ipo sull’Aramco.
I grandi player finanziari che volevano investire proprio su Aramco cambieranno idea?
Non sono sicurissimo che vi volessero investire, nel senso che in discussione c’erano anche alcuni temi, relativamente alla informazione e alla governance, non facilmente superabili. È ovvio che il compimento di tale percorso, ritardando il processo, può causare alcune difficoltà politiche e per dare legittimazione al ritardo diciamo, con una battuta, che se non ti bombardano gli yemeniti ti verrebbe voglia di bombardarti da solo.
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