Di tanto in tanto Aleksandr Solzenicyn “ritorna”. Dopo la ripubblicazione di Arcipelago Gulag (Mondadori, i Meridiani), Nel primo cerchio (Voland) e de Il mio grido (Piano B) , Marsilio propone Ritorno in Russia. Discorsi e conversazioni 1994-2008 (pp. 234, € 22,00). È la “sintesi” del pensiero del grande scrittore, tornato in patria dopo il ventennale esilio, sul Paese profondamente mutato dopo la fine del sovietismo. Il figlio, Ermolaj che introduce i testi scrive: “Dopo vent’anni di esilio, nell’estate 1994, mio padre ritornava per la prima volta in Russia. Fu un’estate davvero memorabile. Quando l’avevano espulso dall’Urss, nel 1974, aveva cinquantacinque anni, e io soltanto tre. In capo a due decenni ora poteva rivedere con i propri occhi il suo paese e anche per me, di fatto, è stato come vederlo per la prima volta (non metto in conto, quanto a impressioni, un viaggio di sei settimane, risalente al 1992, nel nuovo paese che era la Russia)”.
VIAGGIO DI RITORNO COME RISCOPERTA
Un viaggio di ritorno che era una “scoperta”. Come se non conoscesse il Paese che era stato costretto a lasciare. Lo ritrovava profondamente cambiato, ma con molte ferite ancora aperte. Al punto che immaginò immediatamente quale potesse essere il suo contributo alla rinascita della Russia. Lo stesso Ermolaj riporta questa sensazione: “Mi sono fatto l’idea che mio padre, immergendosi a mano a mano nella realtà russa di quell’estate del 1994, mettesse a punto questa o quella delle tesi esposte in Come ricostruire la nostra Russia? (1990), ma in complesso l’orientamento dei suoi giudizi restava abbastanza costante sia alla metà che alla fine del decennio. Molte delle questioni relative allo stato di salute o piuttosto alla salute malferma della nostra società, di cui aveva parlato nel corso di quel viaggio, le ha poi compendiate nell’altro scritto La Russia in rovina (1998)”. Gli scritti ed i discorsi raccolti organicamente in questo libro, sono in effetti, un compendio ideologico e programmatico della visione politica di Solzenicyn. E perciò di straordinaria attualità anche a fronte dei mutamenti piuttosto convulsi e disordinati che stanno avvenendo nella Federazione Russa dove ci si chiede che cosa lascerà in eredità Putin che pur ha fatto molto per legare la società alle sue tradizioni, ma non sempre nella maniera più accorta ed opportuna. Infatti, alla politica putiniana manca uno slancio visionario che possa ricondurla allo spirito dal quale trae origine e che Solzenicyn avvertì come essenziale alla ricostruzione nel momento, in cui rimise piede in patria. “Egli comprendeva molto bene il recente passato, i codici e principi della società̀ sovietica che egli aveva svelato e dalla quale era stato bandito solo vent’anni prima. Allo stesso modo, nei decenni di studio consacrati alla storia della Russia, aveva potuto penetrare in profondità̀, più̀ di chiunque altro, la traiettoria dello sviluppo, i successi e i fallimenti della nostra storia prerivoluzionaria. Prima del ritorno in Russia diceva che scalare una montagna è più complicato che discenderne e, se per settant’anni avevamo disceso a precipizio la china, la via per risalire dallo scavo nel quale ci aveva cacciato il comunismo non sarebbe stata in nessun caso più̀ rapida e agevole”, annota Ermolaj. Ed è stato proprio così.
MANIFESTO NAZIONAL-CONSERVATORE
Per questo motivo soprattutto gli “appunti” – se vogliamo definire tali i frammenti di un discorso molto più vasto che s’inquadra nella sua opera complessiva – di Solzenicyn elaborati tra il 1994 ed il 2008, anno della sua scomparsa, costituiscono gli elementi di un autentico “manifesto” nazional-conservatore, orgogliosamente rivendicato dallo scrittore, che costituiscono, come intuì lo slavista Vittorio Strada, il lascito del patrimonio di un intellettuale profondamente radicato nella sua storia: “Leggerlo, tra consenso d dissenso, aiuta a vincere il vuoto dell’indifferenza e a cercare una via verso qualcosa che non c’è più o forse non c’è ancora”.
Solzenicyn offre gli strumenti per la “scalata”, ma a dire il vero la Russia sembra piuttosto restia a farne buon uso. Eppure dovrebbe. Se non altro per ricomporre le dolorose fratture che fanno ancora male alle generazioni post-sovietiche le quali, negligentemente, tendono a rimuovere la Grande Tragedia. Non a caso, Solzenicyn tornando a casa, il 27 maggio 1994, rivolse il suo primo pensiero alle vittime del Gulag, cioè a chi aveva incarnato la sofferenza di un popolo piegato e sofferente: “Mi inchino a questa terra di Kolyma nella quale sono sepolti centinaia di migliaia, se non milioni, di nostri compatrioti ingiustamente condannati. Oggi, nel ribollire delle contingenti trasformazioni politiche si tende con leggerezza a dimenticare quei milioni di vittime, e che lo facciano coloro che non sono stati toccati da tanto sterminio si può̀ anche capire, ma che dire di coloro i quali se ne sono resi responsabili? Eppure le radici della nostra attuale rovina vengono proprio da lì.
Secondo le antiche credenze cristiane la terra che accoglie martiri innocenti viene da essi resa santa. E tale la considereremo, nella speranza che proprio nella regione della Kolyma si manifesti la luce di una futura guarigione della Russia”.
Nella Kolyma, regione della Siberia nordorientale, tra Magadan e la Jacuzia, il fiume omonimo scorre da Sud a Nord per quasi 2200 chilometri e il paesaggio è dominato da tundra subartica e dai ghiacci. Dall’inizio degli anni Trenta vi soggiornarono, spesso rimanendovi sepolti milioni di deportati, tra i quali lo scrittore Varlam Salmov. Resta nella memoria dei russi che non vogliono dimenticare come il cerchio infernale più̀ atroce dei gulag staliniani.
Riconnettendosi a quella storia – alla sua storia – Solzenicyn per quattordici anni non smise mai di sollecitare il popolo a riconoscersi nei suoi valori e a far sentire la voce di chi non poteva più parlare. Non in maniera sterile o retorica, ma formulando proposte in linea con una tradizione di pensiero che affondava nei secoli e soprattutto dove sopravvivevano comunità ancora non “trasformate” radicalmente dalla sovietizzazione era possibile far recepire il “messaggio” che preludeva al “risveglio”.
LA RIVELAZIONE DEL GULAG
Quel risveglio che fin dal 1973, anno della pubblicazione in Occidente di Arcipelago Gulag, Solzenicyn immaginava possibile pur nel lungo inverno brezneviano. Il volume divenne il simbolo della denuncia dell’universo concentrazionario sovietico. Solzenicyn era uno scrittore già famoso. Nel 1970 gli era stato attribuito il Nobel per la letteratura che non poté ritirare. Reduce dai campi di concentramento dove aveva visto in faccia il volto disumano del comunismo, diventò il nemico principale del regime. Il 13 febbraio 1974, due mesi dopo l’uscita a Parigi di Arcipelago Gulag, venne deportato nella Ddr e privato della cittadinanza sovietica. In quello stesso mese scrisse il suo testo più significativo sotto il profilo politico: Vivere senza menzogna, l’atto d’accusa più violento contro il sovietismo, il comunismo. Dopo quasi due anni trascorsi in Svizzera, si trasferì negli Stati Uniti, nel Vermont, dove rimase fino al 1994.
La sua opera più celebre che lo fece riconoscere al mondo come il capofila del dissenso (erano gli anni in cui il breznevismo veniva contestato da scienziati e letterati come Sacharov, Siniavskij, Maximov, Bukovskij, ecc.), fu un terremoto quasi ovunque tranne che il Italia. Irina Alberti, a lungo sua amica e traduttrice, ricordava che in Italia su Solzenicyn si riversarono valanghe di calunnie, nel tentativo di limitare la portata delle rivelazioni contenute in Arcipelago Gulag. L’Alberti ricordò anche che quel mastodontico “memoriale” venne “scritto solo di notte, al chiaro di luna di una casupola abbandonata in riva al mare estone, d’inverno, senza mai accendere la stufa perché nessuno si accorgesse che c’era qualcuno in quel luogo considerato disabitato”. Ripensando a quel lavoro, Giovanni Paolo II, ricevendolo prima che tornasse in Russia, gli disse: “Molte delle cose che ho fatto le ho fatte pensando a lei e grazie a quel che ci ha saputo dire”.
Non lo ringraziarono, invece, gli intellettuali italiani, il sistema editoriale e culturale: venne messo ai margini del dibattito sul comunismo come un “provocatore”. A differenza, per esempio, di quanto accadde in Francia dove il tormento in molti spiriti aveva agito fino ad indurre alcuni tra i più giovani e brillanti studiosi marxisti a denunciare l’ideologia cui pure si erano votati e a dare vita alla corrente dei “nouveaux philosophes, grazie anche alle rivelazioni di Solzenicyn, in Italia l’evento di fine dicembre passò quasi sotto silenzio e quando non fu più possibile tacere, i tamburi dell’intellighentia cominciarono a rullare. Le recensioni in effetti furono pochissime e poco autorevoli. Rimane agli atti una di Pietro Citati, apparsa sul “Corriere della sera” il 16 giugno, che pur apprezzando il libro di Solzenicyn ritenne di dover aggiungere queste parole delle quasi non se ne avvertiva la necessità: “Per coloro a cui la fortuna ha risparmiato una prova così atroce, credo che sia più proficuo dimenticare del tutto…”. La “distrazione”, comunque, non bastava agli aedi della rivoluzione. Occorreva dedicarsi alla denigrazione. E non si risparmiarono. Arcipelago Gulag venne “smontato” da Carlo Cassola sotto il profilo “artistico” in quanto il suo autore non valeva nulla su quel piano; Umberto Eco definì Solzenicyn una sorta di Dostoevskij da strapazzo; Alberto Moravia sull’”Espresso” lo liquidò come un “nazionalista slavofilo della più bell’acqua”. Del linciaggio mediatico presero atto, insieme con pochissimi altri, per contrastarlo, lo Vittorio Strada ed il grande giornalista Enzo Bettiza. Questi denunciò, senza mezzi termini, “la vergognosa offensiva di vasta parte della cultura italiana”.
Fu così che la sinistra intellettuale al potere in Italia, quarant’anni fa diede il peggio di se stessa scagliandosi non contro la verità di Solzenicyn, ma contro la verità tout court.
LA GRANDE CRISI MORALE E CULTURALE DEL XXI SECOLO
L’indifferenza o quantomeno il fastidio di fare i conti con Solzenicyn è rimasta in Europa. Perciò la riproposizione di questi scritti è particolarmente significativa. Toccano infatti le questioni nodali del nostro tempo è non si limitano soltanto a formulare diagnosi sul futuro della Russia. Uno dei testi più interessanti è quello che Solzenicyn pubblicò sul “Wall Street Journal” nel gennaio 1999, che riprendeva un discorso tenuto un anno prima a Mosca. E metteva il dito nella piega della modernità dominata dall’invasività – non ancora percepita come oggi – della tecnocrazia. Si legge non senza il rammarico che nelle contrade occidentali non sia stato adeguatamente commentato: “Considero pieno di pericoli il passaggio dell’umanità dalla sfera naturale alla tecnosfera: si tratta di un processo forse irreversibile che minaccia di accelerare grandemente nel XXI secolo. Il progresso tecnologico che per secoli si è sviluppato divorando ampie porzioni delle risorse della natura, ora lo fa a spese della cultura e dell’uomo. L’uomo che è sempre stato compartecipe, se non facitore della Storia, diventa una scheggia del progresso tecnologico, i cui clamorosi successi eclissano il valore della persona in quanto tale.
Il nostro mondo interiore, un tempo più̀ abituato alla concentrazione e al lavorio del pensiero, e che già avevamo abbastanza trascurato, ora è invaso da un esorbitante profluvio di vacue informazioni. Questa marea riduce sempre più̀ la presenza dell’elemento spirituale, fino alla sua completa scomparsa in molti soggetti; c’è anche sempre meno spazio per l’amore, il quale non può̀ esaurirsi nell’attrazione sessuale. L’uomo da tipo storico-culturale si sta sempre più̀ mutando in tipo “tecnogeno”. Questa profonda trasformazione psicologica è foriera per l’umanità di una minaccia mortale: perdere se stessa”.
Un profeta? Questo nostro tempo li scaccia come annunciatori di sciagure e si culla nell’illusione di un progresso indefinito che sta uccidendo popoli e sentimenti. Solzenicyn non è stato soltanto un grande scrittore, un testimone temerario, un accusatore implacabile del male assoluto. Nelle sua lungimirante visione del futuro sapeva vedere ciò che sarebbe inevitabilmente accaduto. Questa lunga citazione che rimonta ventuno anni fa riassume la sua concezione del mondo ed è l’ennesimo grido di allarme, inascoltato, che la ciò oltre il suo tempo. Infatti noi, con stupore e raccapriccio lo raccogliamo adesso nella speranza che chi ha ridotto il mondo ad un impalpabile universo totalitario dominato dal pensiero unico tecnocratico ne faccia buon uso.