Ora si è capito. O meglio, lo hanno capito anche coloro che fino ad oggi si rifiutavano di riconoscerne l’essenza. Il Movimento Cinque Stelle, prodotto rozzo inizialmente per poi diventare sofisticato come un’invenzione robotica, grazie al laboratorio Casaleggio e Associati, non è populista, non è sovranista, non è di destra né di sinistra, non sta con l’Occidente e neppure con l’Oriente. Di tutto si serve per shakerare il suo eccentrico cocktail.
È il nulla nato tra le macerie dell’antipolitica, coltivata tanto dal centrodestra quanto dal c, e alimentatosi con i frutti malsani cresciuti nella società del disincanto e della rabbia. Perciò qualificarlo come trasformista, semplicemente e senza alcun’altra aggettivazione, è il modo più corretto per decifrarne la natura e stabilire una volta per tutte il suo complesso obiettivo: gestione del potere, occupazione dei centri decisionali, formazione di una nuova casta, modulazione della società secondo la filosofia tecnocratica elaborata da Gianroberto Casaleggio (impresa ardua: ci vorrebbero intelligenze più raffinate di quelle che vediamo all’opera), costruzione di un sistema politico fondato sulla “democrazia digitale” che non ha nulla da spartire con la democrazia diretta.
Il trasformismo è l’arma che ideologicamente (eterogenesi dei fini per chi si proclama post-ideologico) i grillini adottano scopertamente al solo fine di non uscire più dalla scatoletta di tonno che intendevano aprire non certo per ospitarvi qualcun altro. Perciò non deve stupire di trovarli in qualsiasi combinazione: con la destra, con la sinistra, con il centro (se esistesse), con gli agnostici e i credenti (preferibilmente gesuiti se il caso glieli propone), con i burocrati europeisti e con gli euroscettici, con i separatisti alla Farage e con gli “unionisti” alla von der Leyen per la quale hanno votato al Parlamento europeo.
Se hanno “salvato” Salvini dalla messa sotto accusa, non è stato per generosità, ma soltanto per buttarlo a mare alla prima occasione utile: peccato ci abbia pensato lui stesso a togliersi di torno sottovalutando gli “alleati” per i quali spese parole dolcissime mentre abbandonava al loro destino Berlusconi e Meloni con i quali aveva quasi vinto le elezioni. Ma Salvini e la Lega, che pur di trasformismo s’intendono (ricordate il 1994? A quell’epoca andava di moda la scatoletta di sardine, forse più popolare del tonno e Bossi apparecchiò la tavola con D’Alema attorno a quella pietanza per levarsi dalle scatole il Cavaliere dopo averci fatto un governo…), non hanno la capacità di competere con la spregiudicatezza cinica dei pentastellati. Sono e restano valligiani con un che di genuino, ammettiamolo, dovuto alla lunga militanza per una causa da noi avversata, ma pur sempre politicamente rilevante: la secessione della Padania. Ben altra roba rispetto alla sacralizzazione del web per muovere le masse anche se poi l’ex-capitano leghista ne ha fatto un uso a dire poco smodato mettendo in rete perfino le sue innocenti perversioni culinarie: casseula e ossobuco sarebbero stati maggiormente apprezzati.
Dal trasformismo non se ne esce. È una condizione mentale. Ha molti volti, almeno quanti sono gli esponenti di rilievo pentastellati: ognuno buono da esibire nella circostanza adatta. E di questo passo si costruiscono maggioranze che nel Paese reale non esistono, si inventano personaggi ai vertici delle istituzioni e delle amministrazioni locali privi di qualità, si chiamano nei posti di responsabilità dello Stato, purché servizievoli, ausiliari del potere nelle più diverse circostanze. A tutti si chiede di essere fedeli, non alla Repubblica o alla Costituzione, ma al Grande Fratello dal quale dipende perfino la formazione del governo: qualche decina di migliaia di internauti ha deciso che poteva essere varato il Conte-bis; non era inverosimile che accadesse il contrario, come molti temevano, a cominciare dagli oligarchi grillini. E perché non dovrebbe restare il dubbio nei cittadini che la faccenda del voto sulla piattaforma Rousseau sia stata senza macchia e senza peccato? Che prove abbiamo che tutto si sia svolto in maniera impeccabile? E quand’anche fosse andata senza manomissioni o errori materiali o diavolerie tecnologiche che ne avrebbero condizionato l’esito, è sopportabile che il destino politico di un Paese di sessanta milioni di esseri umani debba dipendere da una minoranza di iscritti?
Il trasformismo si serve degli strumenti dei tempi. Agostino Depretis, grande politico a suo modo, adattò il velleitarismo di una classe parlamentare largamente inadeguata, moralmente discutibile, culturalmente accettabile, agli scopi delle oligarchie del tempo, ma senza tradire lo Statuto Albertino. Oggi possiamo dire che uno sgarro profondo alla Costituzione e alle libertà repubblicane sia stato inferto da una forza politica che si accinge a governare il Paese con la complicità operosa della sinistra e della sinistra estrema, con la stessa disinvoltura con cui ha governato insieme con i sovranisti irragionevoli e culturalmente chiusi in un guscio di pregiudizi.
Dove porta il trasformismo è facile capirlo. Alla corruzione della vita pubblica. Se ogni principio è discutibile vuol dire che non c’è nessun principio in base al quale modulare il comportamento civico. Tutto è permesso, niente è vietato tranne mettere in discussione la buona fede di un Movimento capace di farsi concavo e convesso a seconda della bisogna. E poco ci consola la previsione che vorrebbe le forze del pasticcio politico-parlamentare avere vita breve.
Avranno abbastanza vita per condurre in porto il dissennato disegno di chi adora il potere ed ignora il bene comune. Il Pd, Leu e i Cinque Stelle fino a venti giorni fa erano quanto di più lontano si potesse immaginare. Adesso governano insieme. E non dopo una lunga riflessione e l’elaborazione di un programma che ne certifichi la compatibilità. Semplicemente perché l’etica del trasformismo impone un salutare bagno nella melma dell’antipolitica.