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Kashmir, Trump prende tempo. E media fra India e Pakistan

Go Trump or go home. L’assemblea generale dell’Onu a New York ha visto Pakistan e India contendersi il presidente degli Stati Uniti alla ricerca di un endorsement che può spostare l’ago della bilancia nella crisi del Kashmir. Le tensioni nella regione reclamata da decenni dalle due potenze regionali sono alle stelle.

Il distretto di 13.000 chilometri quadrati e oltre 4 milioni di abitanti a maggioranza musulmana si è trasformato in una polveriera lo scorso 5 agosto, quando il primo ministro indiano Narendra Modi fresco di rielezione ha abrogato l’articolo 370 della costituzione che da settant’anni garantiva al Kashmir uno status speciale. Un gesto che ha aperto una nuova stagione di violenza, con centinaia di arresti arbitrari, attacchi terroristici, un aumento vertiginoso di truppe indiane a presidio del territorio e un continuo ping-pong di accuse e minacce di intervento militare fra Nuova Dehli e Islamabad.

La partita rischia di destabilizzare l’intero continente asiatico e ha visto inserirsi diversi altri attori regionali in una competizione geopolitica che va ben oltre le opposte rivendicazioni. Dopo un’iniziale esitazione a fine luglio l’amministrazione Usa è intervenuta nella diatriba. Prima di ricevere alla Casa Bianca il primo ministro pakistano Imran Khan Trump si è detto disposto a mediare per una soluzione della crisi in Kashmir. Un’offerta che ha suscitato violente reazioni nell’opinione pubblica indiana e costretto Modi a fare un passo indietro, negando di fronte al parlamento che vi sia mai stata una richiesta in tal senso da parte del governo indiano.

Il dossier è tornato sotto i riflettori della Casa Bianca questa settimana. Trump ha incontrato separatamente entrambi i leader a New York prima della riunione dell’Assemblea generale dell’Onu. Il primo faccia a faccia lo ha avuto con Modi, che ha partecipato a Houston al rally post-elezioni “Howdy Mody” con la comunità indo-americana. Accolto da un’ovazione Trump ha fatto il suo ingresso ribadendo il suo supporto al presidente indiano e leader del partito di estrema destra Bharatiya Janata Party (Bjp): “non avete mai avuto un presidente tanto amico quanto Donald Trump, ve lo posso assicurare”.

L’assist è stato ricambiato da Modi, che ha dato il suo endorsement formale alla corsa di Trump per le presidenziali del 2020 al grido di “Abki baar Trump sarkar”, “questa volta un governo Trump”. Momento di imbarazzo per il capo della Casa Bianca quando Modi al suo fianco sul palco ha accusato il Pakistan della regia di gruppi terroristici negli Stati Uniti e in India.

Al rally ha fatto seguito un incontro con Khan all’hotel Intercontinental di New York. Ancora una volta Trump ha rinnovato la proposta di mediazione. “Sarei un perfetto arbitro. Non ho mai fallito in quel ruolo”. E ancora una volta le sue parole hanno animato l’opinione pubblica dei due Paesi asiatici, divisa (anche via social) sul significato da attribuire all’equilibrismo del presidente americano e sull’effettiva posizione degli Stati Uniti nella crisi in Kashmir.

Il dibattito ha preso piede nella comunità di analisti di geopolitica americani, per gran parte convinta che dietro le dichiarazioni della Casa Bianca non vi sia un piano d’azione per una soluzione pacifica delle tensioni fra Nuova Dehli e Islamabad. La mai sopita aspirazione di Trump di mettere nel palmarès un’altra photo opportunity da premio Nobel per la Pace deve fare i conti con le priorità dell’amministrazione nella regione.

La battaglia per il Kashmir sembra più un mezzo che un fine per il Dipartimento di Stato Usa. Dietro il canale aperto con il Pakistan c’è la partita per l’Afghanistan. Solo un mese fa Trump ha spiazzato il governo pakistano cassando con un tweet i negoziati per la pace con i Talebani che erano giunti ormai al loro nono round ed erano pronti a entrare nel decimo previsto a Camp David l’8 settembre. Il presidente Usa vuole usare Khan e l’influenza che il suo governo vanta sui Talebani per alzare la posta e stringere un vero accordo di pace che includa il presidente afghano Ashraf Ghani e non baratti il ritiro di 5400 soldati americani con vaghe assicurazioni verbali. Il primo ministro pakistano dal canto suo ha interesse a chiudere l’accordo non solo per salvaguardare la credibilità del governo di fronte ai Talebani ma soprattutto perché, come ha spiegato l’ambasciatore del Pakistan in Italia in un’intervista a Formiche.net Nadeem Riyaz, una distensione in Afghanistan permetterebbe a Islamabad di spostare una parte delle 160.000 truppe schierate al confine nel Kashmir pakistano.

Non è tutto. C’è un altro appuntamento che spiega l’accondiscendenza di Khan verso le richieste di Trump. A novembre è attesa la decisione sul Pakistan della Fatf (Financial action task force), organo intergovernativo nato nel 1989 con lo scopo di combattere il finanziamento al terrorismo e il riciclaggio di denaro e attivo in Asia attraverso il braccio Asia Pacific Group (Apg). Quest’ultimo ha inserito a fine agosto il Pakistan in una black-list di Paesi finanziatori del terrorismo. Il governo di Khan farà ricorso alla prossima sessione e avrà bisogno, se non dell’aperto sostegno, quantomeno dell’astensione statunitense.

Anche il rapporto con Modi non è estraneo a contropartite. In primo piano dietro le interlocuzioni sul Kashmir rimane un accordo commerciale volto a risollevare l’agricoltura americana messa in ginocchio dalla guerra commerciale con la Cina. Sul tavolo c’è la riduzione delle tariffe indiane su beni come la carne di maiale e le noccioline e la promessa di aprire “nuovi mercati” agli agricoltori statunitensi che fa da sfondo alla nuova campagna elettorale di Trump.

Una sfida che si preannuncia meno in discesa del previsto per il presidente, fermo nei sondaggi intorno al 50% dei consensi. Anche per questo non è poco guadagnare la fiducia di 4 milioni di indiani residenti in America e pronti a votare l’anno prossimo. La comunità indo-americana è un tassello vivace dell’economia del Paese e soprattutto costituisce l’architrave della Silicon Valley, un mondo da sempre vicino ai democratici. Non è ancora tardi per far loro cambiare idea.

(Foto: Cnn)


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