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Pechino fuori dalla finanza Usa. La nuova arma di Trump nello scontro con la Cina

L’amministrazione Trump, scrivono sia Reuters sia Bloomberg citando fonti americane, starebbe ragionando su un provvedimento con cui escludere le società cinesi dal mercato finanziario degli Stati Uniti. Gli americani hanno fatto circolare la notizia mentre si torna a parlare di un riavvio dei negoziati sul commercio; ossia hanno voluto mostrare — come fatto già in precedenza — che cosa potrebbe significare non raggiungere un accordo complessivo. E il precedente esiste: l’aumento delle tariffe sugli scambi è già in essere, ha avuto step incrementali e ora siamo davanti a una nuova fase. 

La prossima settimana, tra il 10 e l’11 ottobre, dovrebbe tenersi un nuovo round di colloqui sul commercio. Un appuntamento che i mercati internazionali stanno tenendo d’occhio in prospettiva. Da giorni si vive una fase rilassata delle transazioni, ma si tratta di “una navigazione a vista”, dicono gli esperti. Il punto è che ai negoziati è legato un altro potenziale aumento dei dazi (su 250 miliardi di dollari di prodotti importati dalla Cina) previsto per il 15 ottobre, quando le tariffe del 25 per cento dovrebbero aumentare al 30. Se ci saranno evoluzioni positive, però, non è escluso un ulteriore slittamento della misura.

A questo si abbinano adesso le rivelazioni arrivate ai media sul potenziale allargamento alla borsa del fronte commerciale, che come più volte ribadito è l’ambito di sfogo del maxi-confronto tra Stati Uniti e Cina. Uno scontro tra potenze la cui ragione è semplificabile con un dato: secondo le ultime rivelazioni della società di revisione PricewaterhouseCoopers (PcW) nel 2030 il Pil cinese arriverà a 26,5 migliaia di miliardi di dollari, quello americano a 23,4. Ossia, sarà l’anno del sorpasso, se continueranno i ritmi attuali (con entrambe le economie che hanno comunque dei problemi). 

Quella cinese diventerà la prima economia del mondo, e nel frattempo Pechino si porterà in vantaggio sull’enorme tema dell’evoluzione tecnologica, su cui si fonda la crescita di un Paese e la qualità della competizione che riesce a esprimere. Ma non basta, c’è un altro dato da esaminare: il Global Financial Centres Index diffuso a inizio mese dall’Instituto per lo Sviluppo cinese, un indice sulla qualità dei centri finanziari internazionali, dato definito con parametri quantitativi che valutano diversi parametri, l’ambiente aziendale, il capitale umano, il livello dell’infrastruttura, lo sviluppo del settore finanziario e la reputazione. Il risultato mette New York in testa, con Londra in discesa (a causa dell’avvicinarsi di una Brexit no-deal) e Hong Kong e Singapore a ruota. Dietro il blocco cinese, con Shanghai (quinta) a guidare un gruppo composto da Pechino, Shenzhen, Guangzhou e svariate altre città e aree tutte, escluso Chengdu, nella metà alta della classifica stilata tra 104 Paesi e tutte in crescita.

La notizia sull’idea di escludere le aziende cinesi dal mercato azionario americano – tecnicamente definito “delisting” – non esce dunque in un momento scontato e ha già colpito aziende come Alibaba, che ha chiuso oggi con il 5,3 per cento di perdite, e Baidu (meno 3,67). Già a giugno, i parlamentari americani avevano promosso una legge per imporre a Pechino di far ispezionare le società cinesi quotate negli Usa: attività su cui il governo cinese è stato sempre riluttante, fornendo le coperture e le protezioni adeguate e chiudendo le porte delle proprie aziende nazionali anche alle cosiddette Big Four (le quattro grandi società di revisione, di cui PcW è parte).

“Pechino non dovrebbe più essere autorizzata a proteggere le società cinesi quotate negli Stati Uniti dal rispetto delle leggi e dei regolamenti americani per la trasparenza e la responsabilità finanziaria”, disse presentando la legge il senatore repubblicano dalla Florida, Marco Rubio. Attualmente ci sono 156 società tra le liste delle quotate da Nasdaq e New York Stock Exchange, di cui 11 sono di proprietà statale. Il riportare le loro attività  in modo rigido sotto il quadro legislativo statunitense è parte di una sforzo complessivo per limitare gli investimenti della Cina negli Usa.

È una fase in cui le dinamiche tecniche, come le tariffe commerciali, si abbinano a quelle politiche, come la volontà americana di porre la Cina sotto un sistema internazionale. Questioni che si rispecchiano in modo pratico su dati come quelli citati, ma che hanno anche un aspetto narrativo. Domani la Cina festeggerà i suoi 70 anni e si appresta a mostrarsi al mondo come una potenza militare, con una cerimonia che include una parata militare in cui verranno mostrati i pezzi più pregiati di un arsenale in continua crescita.

La fusione delle componenti civili-militari sotto un quadro sostanzialmente controllato dal governo, con le aziende che si muovono secondo linee politiche e geopolitiche, è uno dei grandi temi di Pechino contro cui Washington sta lavorando. In questo ambito rientra anche il piano “Made in China 2025”, quello con cui il presidente Xi Jinping vorrebbe far raggiungere alla Cina l’indipendenza tecnologica e il primato globale. Paradigma funzionale è il caso Huawei, gigante delle telco cinese contro cui gli Stati Uniti hanno lavorato per creare un fronte d’isolamento compatto, perché viene considerata una di specie di corpo di ingegneri dell’Esercito di liberazione popolare per le telecomunicazioni globali.

Huawei è l’esempio che raccoglie tutto: dalla sovrapposizione civile-militare che crea problematiche di dimensione strategica, ai rispetti dei parametri di trasparenza richiesti dal mercato globale, fino al piano pratico dell’efficenza. La società cinese è attualmente il produttore numero uno al mondo di determinati sistemi di telecomunicazione e riesce per questo a guidare il mercato, dando alla Cina vantaggio su settori come il 5G.

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