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Conte vs Di Maio: guerra di posizione per future leadership

Chi pensava che le convulsioni quotidiane e la lotta intestina fra le forze politiche e all’interno di esse fosse una prerogativa della passata stagione politica, quella di un innaturale “contratto di governo” fra forze eterogenee e tendenzialmente non amalgamabili, ha dovuto presto ricredersi. In quell’analisi, in verità, c’era poco realismo politico e poca consapevolezza dello stato di crisi in cui versa il nostro sistema. Il quale ormai da un quarto di secolo cerca un baricentro che non trova.

Non desta perciò stupore il conflitto, non solo latente ma esplicito, fra Giuseppe Conte e Luigi di Maio: in seno al governo e, in qualche modo, anche all’interno del Movimento 5 Stelle, di cui pure il presidente del Consiglio non fa ufficialmente parte. Non avendo fra l’altro le forze politiche attuali un’idea di Paese, e una visione generale del mondo (che non coincide necessariamente con un’ideologia forte), è anche naturale che la lotta fra personalità e fra gli interessi si concentri su misure simboliche e tutto sommato secondarie come possono essere quelle che il capo politico dei pentastellati vuole siano riconosciute nella Legge di Bilancio, che è invece, per il presidente del consiglio Conte, sostanzialmente già definita nelle sue linee generali. O almeno lo era, visto che, come sembrerebbe, qualche apertura alle richieste di Di Maio ci sarà e ciò che era definitivo in fondo in fondo non lo era poi tanto.

Gli annunci e le dichiarazioni a mezzo stampa, nel secondo come nel primo governo Conte, sono fatte non per trasmettere “verità” ma per posizionarsi in un eterno gioco di potere volto a misurare la potenza di ognuno dei protagonisti. Gli ultimatum diventano, in questo contesto, penultimatum; e tutto assume un valore strumentale che fa aggio alla realtà dei fatti. Nella lotta fra Conte e Di Maio c’è in gioco, ovviamente, il controllo del Movimento, prima di tutto. Conte non ha un pacchetto di voti da far pesare sul tavolo, ma potenzialmente potrebbe conquistarlo se decidesse di scendere in campo in una prossima tornata elettorale (dire, come lui fa, che non si è interessati a fondare un partito o a concorrere alle elezioni, è affermazione da non prendere troppo sul serio: fa parte del gioco!).

Per avere questa potenzialità, Conte ha lavorato magistralmente nell’anno e passa in cui, emerso dal nulla, è approdato a Palazzo Chigi: ha conquistato la fiducia degli italiani, con il suo fare rassicurante e il suo aplomb conciliante da vecchio democristiano; ha tessuto rapporti internazionali e con il deep state, puntualmente trascurati dai suoi vecchi azionisti (Matteo Salvini non meno di Di Maio); ha mostrato grandi capacità di mediazione e buon senso. Se perciò è vero che Di Maio ha i voti e Conte no, non si può dimenticare che l’uno ha gli appoggi giusti e i voti in potenza e l’altro, che i voti ce li ha in atto (come seggi parlamentari), è in caduta libera nei sondaggi e non controlla più del tutto il suo partito.

Conte, in verità, qualora decidesse di scendere in campo, ha due vie aperte davanti a sé, oltre a quella di non farsi disarcionare da presidente del Consiglio prima della fine della legislatura: da una parte, quella di farsi incoronare leader del Movimento (a costo anche di qualche piccola scissione interna), o comunque di fare una lista ad esso alleata; dall’altra, al contrario, di creare un proprio partito e cercare di presidiare quell’area di centro attualmente sguarnita ma molto ambita. In questo caso, in qualche modo, entrerebbe in contrasto con Renzi, il quale non a caso lavora di sponda con Di Maio per ridimensionare le ambizioni del premier.

Fino a quando durerà questo gioco non è dato sapere, ma è prevedibile che duri per tutta la legislatura. Ma nel frattempo dell’interesse degli italiani che ne sarà? Temo che, come spesso è accaduto in passato, anche questa volta esso si farà spazio solo nella misura in cui coinciderà con l’interesse personale di uno o più di uno dei protagonisti. La convergenza degli interessi, non la moralità, presiede all’azione politica in democrazia. E tutto sommato, anche se sembra il contrario, non è un male.

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