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La guerra ai curdi aiuta l’Isis. La paura europea

Il caos siriano dopo l’attacco della Turchia e il massacro dei curdi ha fatto accendere nuovamente i riflettori sul fenomeno del terrorismo jihadista che aveva perso l’onore delle prime pagine pur continuando a proliferare e a causare attacchi isolati. Centinaia di militanti dell’Isis fuggiti, migliaia di donne radicalizzate che vivono con i loro bambini in campi poco controllati e sulla cui sorte nessuno fa previsioni, la spada di Damocle di almeno 2mila foreign fighter che i Paesi europei non vogliono, situazioni esplosive nei Balcani e in Africa, cioè a Est e a Sud dell’Italia: queste sono le conseguenze dell’attacco turco e della scelta europea di abbandonare i curdi al loro destino.

TERRORISTI IN LIBERTÀ

Il 13 ottobre le autorità curde hanno comunicato la fuga di circa 800 jihadisti stranieri dal campo di Ayn Issa, nella Siria settentrionale a circa 35 chilometri dal confine turco. In quel campo ci sarebbero 12mila persone tra cui mogli, vedove e figli dei combattenti dell’Isis e sarebbe ormai senza controllo. Si sta verificando quello che era prevedibile: i curdi non possono fare la guerra ai turchi e nello stesso tempo tenere a bada i campi con i jihadisti. Un altro enorme problema è il campo di Al Hol con oltre 70mila persone di cui almeno 10mila donne dell’Isis con i loro figli. Una specie di campo profughi, di fatto un’enorme area più o meno controllata, ma nella quale gli aderenti al Califfato impongono la sharia e continuano a radicalizzarsi e a fare proseliti. In pratica, una bomba a orologeria.

LE “VEDOVE NERE”

Le donne dell’Isis non sono povere fanciulle in lacrime, sono potenziali organizzatici di attentati o esse stesse kamikaze. Ricordano le “vedove nere” protagoniste di tante tragedie, a cominciare dalle cecene dei primi anni Duemila: le 19 donne con cintura esplosiva nel teatro Doubrokva di Mosca nel 2002, in un commando di una quarantina di ceceni, morti insieme a forse 200 ostaggi dopo l’intervento delle forze speciali russe; oppure le due donne del teatro di Beslan nel Caucaso nel 2004, parte di un commando di 32 terroristi che sequestrarono 1.200 persone. Intervento delle forze speciali e centinaia di morti, soprattutto bambini. Episodi da ricordare insieme con la presenza femminile in tanti attentati, riusciti o sventati, negli ultimi anni.

I FOREIGN FIGHTER

La sorte degli oltre 2mila, forse 2.200 combattenti stranieri di nazionalità europea è ancora sconosciuta, anche se oggi in prigione ne restano meno visto che molti sarebbero tra gli 800 fuggiti. Gli Stati di provenienza si guardano bene dal riprenderli, non c’è traccia di un apposito tribunale internazionale e una flebile speranza potrebbe essere l’Iraq che sarebbe disponibile a farsene carico in cambio di sostanziosi aiuti. Una soluzione che risolverebbe i problemi europei e, forse, farebbe inorridire i giuristi più severi perché dei cittadini europei sarebbero sottoposti a un ordinamento che prevede anche la pena di morte senza nemmeno che, in molti casi, abbiano commesso quei reati in territorio iracheno. Inoltre, non si conosce la sorte della decina di cittadini francesi già condannata a morte in Iraq nei mesi scorsi.

IL FRONTE ITALIANO

I foreign fighter italiani sono 142, di cui 48 morti con certezza anche se probabilmente sono di più perché di parecchi non c’è traccia da molto tempo. Ricordato che nell’elenco dell’antiterrorismo ci sono anche soggetti che hanno avuto solo contatti o sono stati di passaggio in Italia, ora sono quattro quelli prigionieri dei curdi. Tra di loro Alice Brignoli, originaria della provincia di Lecco, che vive nel campo di Al Hol con tre figli e con il marito, Mohamed Koriachi, coinvolto nell’inchiesta “Terre vaste” che nell’aprile 2016 consentì alla Digos di Lecco di arrestare un forte kickboxer, Abderrahim Moutaharrik, sua moglie e un amico che avevano aderito all’Isis. Nel giugno scorso l’Ucigos arrestò un quinto combattente “italiano”, Samir Bougana, italo-marocchino che aveva combattuto con l’Isis e che era disponibile a mettere fine alla sua “avventura”. Tra i prigionieri ci sono anche due marocchini condannati in Italia e dunque, in caso di estradizione, sarebbero incarcerati.

ATTACCHI IN AUMENTO

Gli investigatori sorridono amaramente quando attacchi terroristici vengono subito derubricati al gesto di un matto. Purtroppo non è quasi mai così. Nelle ultime settimane l’unico dubbio riguarda proprio l’Italia: il 17 settembre alla stazione di Milano un soldato è stato ferito con un piccolo paio di forbici da uno yemenita che nei giorni precedenti aveva già dato in escandescenze. Il fatto che abbia urlato Allahu Akbar quando è stato fermato non viene preso in seria considerazione. Molto diversi altri episodi: il 3 ottobre un funzionario di polizia francese, Michael Harpon, convertito all’Islam da più di un anno, ha ucciso quattro agenti nella prefettura di Parigi usando un coltello in ceramica che non è individuabile dal metal detector; l’8 ottobre a Limburg, in Germania, un camion appena rubato è finito contro una colonna di auto ferme provocando 9 feriti e si sta ancora indagando per capire le reali intenzioni del conducente; l’11 ottobre a Manchester un uomo ha accoltellato e ferito quattro persone in un centro commerciale; il 14 ottobre un turista francese è morto a Tunisi accoltellato al grido di Allahu Akbar da un uomo subito fuggito. Non sono coincidenze temporali perché, oltre alla facilità con cui persone psichicamente fragili possono essere influenzate dalla narrativa jihadista, la guerra turca contro i curdi sta rianimando gli estremisti di mezzo mondo.

I PERICOLI PER L’EUROPA

Se l’Italia è apparentemente in una posizione privilegiata perché i nostri foreign fighter sono pochissimi, la preoccupazione è alta perché siamo un pezzo d’Europa e nel migliore dei casi possiamo essere territorio di transito di jihadisti. È impossibile prevedere che cosa accadrà e soprattutto se le scelte diplomatiche consentiranno di contenere i danni. I jihadisti tornati liberi potrebbero riorganizzarsi con i loro sodali nelle tante zone dove sono ancora attivi o potrebbero trasferirsi in altri teatri di guerra, in Africa o in Asia. Nei mesi scorsi parecchi prigionieri sono stati trasferiti in alcuni Stati balcanici di provenienza come Bosnia o Kosovo dove gli uomini sono stati condannati, magari a pochi anni di carcere, e le donne stanno continuando la radicalizzazione. Le nazioni balcaniche sono povere nelle parti più interne e non è difficile vedere una bandiera dell’Isis sventolare su una casa in una zona isolata: questa è la realtà ai confini europei, anche se l’Italia ha una buona collaborazione con quei Paesi e ottime fonti di informazione, compresa la missione Kfor della Nato in Kosovo.

IL CAOS AFRICANO

Il fronte meridionale preoccupa ancora di più. Tra il 19 e il 30 settembre Africom, il comando statunitense per l’Africa, ha comunicato di aver bombardato quattro volte postazioni dell’Isis nel sud della Libia uccidendo complessivamente 43 terroristi: la prova che il Califfato è ormai stabilmente in quell’area e che il generale Khalifa Haftar la controlla meno dei mesi scorsi, forse perché concentrato su Tripoli. La mancata organizzazione della conferenza di Berlino, ufficialmente slittata, conferma il caos diplomatico oltre a quello sul terreno. Questo si unisce alle sempre più forti realtà jihadiste in Africa che potrebbero ricevere aiuto da chi sta fuggendo dalle prigioni curde. Per esempio si è parlato poco dell’attacco del 30 settembre contro due Lince dell’Esercito della missione europea Eutm in Somalia: la Difesa aveva comunicato che l’attacco di al Shabaab non aveva avuto conseguenze mentre il 9 ottobre il sottosegretario Angelo Tofalo ha fatto sapere di essere andato a trovare all’ospedale del Celio i tre militari (due dell’Esercito e uno dei Carabinieri) coinvolti nell’attentato. Nei primi nove mesi del 2019 Africom ha effettuato 54 bombardamenti contro l’Isis Somalia e al Shabaab uccidendo decine di miliziani.

Quello che è certo è che oggi centinaia di militanti dell’Isis sono liberi e che altrettanti, se non di più, potrebbero esserlo in futuro.

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