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Vertici a go go e segnali di fumo agli elettori. Per Polillo il governo naviga a vista

I fumi tossici delle elezioni umbre hanno raggiunto rapidamente Palazzo Chigi. Un vento gelido ha reso più difficili i rapporti all’interno di una maggioranza, già scossa da ripetute crisi di nervi. Si sperava non si sa bene in cosa: visto che oggi quasi tutti ammettono che quello umbro era un disastro annunciato. Ma allora perché temporeggiare? La manovra andava approvata subito, invece di ricorrere al rinvio delle “salve intese”. Destinato a riaprire il vaso di Pandora. Giocando al buio, ossia prima di conoscere i risultati, forse la mediazione sarebbe stata meno faticosa. Sarebbe rimasta l’incognita del voto parlamentare. Ma oggi quello stesso scoglio affiorante si è trasformato in una piccola montagna. Nessuna meraviglia comunque. Nonostante il continuo riferirsi del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ad una visione strategica, destinata ad essere verificata solo nel 2023, la verità è che si naviga a vista. Sia sul piano della politica economica, che sul terreno della semplice politique d’abord. Ed allora: nuovo, ma verrebbe da dire ennesimo, vertice di governo. Difficile contarli.

Un susseguirsi concitato di riunioni più o meno carbonare. Le singole delegazioni che si vedono prima della riunione ufficiale. Quindi i maggiorenti delle diverse componenti che cercano di spostare, a proprio favore, l’ago della bilancia. Ed infine la riunione formale del Consiglio dei ministri, che non risolve. Ed il gioco ricomincia, in uno sconcerto sempre più generale. Riferiscono le agenzie che alla riunione erano presenti: Giuseppe Conte, con a fianco il Ministro dell’economia Roberto Gualtieri. Per il M5S c’erano Luigi Di Maio, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e il viceministro all’Economia Laura Castelli. Per il Pd, Dario Franceschini e il viceministro al Mef Antonio Misiani. Per Leu, Roberto Speranza e la capogruppo al Senato Loredana De Petris. Italia viva era rappresentata da Teresa Bellanova e dal vicecapogruppo Luigi Marattin. Una sorta di bella rimpatriata, dopo il mancato plenum di Narni con tanto di fotografia ricordo, in cui ciascuno ha cercato di difendere le proprie piccole bandiere.

Mentre dall’esterno Nicola Zingaretti, sempre più sconcertato, pronunciava il suo ultimo penultimatum: “la maggioranza deve cambiare passo, litigare meno e produrre di più. Serve al Paese, se no non verremo mai riconosciuti come una alternativa credibile alle destre”. Più facile a dire che fare. In un momento difficile, come quello che sta vivendo l’Italia, con gli spread che sono tornati a crescere e che rischiano di essere addirittura maggiori di quelli greci, un governo non si improvvisa. Richiede una visione per lo meno convergente. Lo si è visto chiaramente nel fallimento della maggioranza gialloverde. Contratto o non contratto. Il lievito di un consenso popolare certificato da libere elezioni, per dare ai rappresentanti politici del Paese la forza di misurarsi con l’Europa.

Nelle condizioni date, invece, non resta che sperare nella clemenza della corte. E nelle ammaccature che traspaiono, qua e là, negli stessi equilibri continentali. L’ultimo colpo, in ordine di tempo sono stati i risultati delle elezioni in Turingia, con il crollo di Cdu e Spd. Se neanche nel più forte Paese europeo, dotato di un potenziale finanziario enorme, l’establishment riesce a contrastare le spinte dell’estrema destra e dell’estrema sinistra, come si può pensare di condannare la terza economia dell’Eurozona, per il mancato rispetto di qualche decimale? Ed ecco allora l’equilibrismo di Valdis Dombrovskis: “nessuna bocciatura della manovra”, ma “preoccupazioni” che rimangono. Specie in attesa di conoscere (tutto tempo guadagnato) il responso delle prossime previsioni della stessa Commissione. Le quali, a meno di un miracolo, non potranno che confermare quelle dell’Ocse, del Fmi e, da ultimo, di Standard & Poor’s.

Ma, in Italia, si continua a discutere non di scelte, ma di segnali di fumo da trasmettere ai rispettivi possibili elettori. Si spiegano allora le ultime tesi di Luigi Di Maio: paladino delle partite Iva, dopo l’esaltazione del salario di cittadinanza. Ma non c’è contraddizione? Matteo Renzi che punta, invece, sulla famiglia. Roberto Speranza che vuole togliere i ticket sulla sanità. Mentre i Dem cercano disperatamente di garantire la quadratura del cerchio. Saranno atti risolutivi, non dal punto di vista dell’economia, ma della politica? Ne dubitiamo. L’artificio è quello di moltiplicare per tre, nella comunicazione, gli stanziamenti. Ma quel che conta, per i cittadini, è sapere quanto alla fine dell’anno, e non a babbo morto, sarà a disposizione sulle loro buste paghe.

Eppure l’esperienza dei giorni passati avrebbe dovuto illuminare. Qual è stato l’effetto sull’elettorato umbro dei risparmi ipotizzati a seguito della riduzione del numero dei parlamentari? Quei pochi risparmi, quantificati da Carlo Cottarelli nello 0,007 per cento della spesa pubblica italiana, devono aver fatto infuriare più di uno. Considerato il tempo speso per portare a casa il provvedimento. Fatica che poteva essere meglio utilizzata. Ma da questa contraddizione non si esce. Ed come quello che voleva scalare l’Everest indossando solo il costume da bagno. Lo hanno trovato morto assiderato. Poi si è venuto a sapere che aveva disturbi della conoscenza.

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