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Ilva di Taranto, cosa cambia con l’arrivo di Lucia Morselli. L’analisi del prof. Pirro

Allora esisteva, o si sta dipanando in questi giorni, un filo rosso fra l’avvicendamento al vertice di Arcelor Italia, il progetto dei parlamentari del Movimento 5 Stelle che vogliono la chiusura dell’area a caldo del Siderurgico e il sindaco di Taranto che condivide tale proposta? Si sta forse stringendo una tenaglia contro addetti della fabbrica, sindacati, imprese dell’indotto e tutti gli altri soggetti che gravitano sul grande impianto?

Il licenziamento in tronco – perché pare che proprio di questo si sia trattato – di Matthieu Jehl da amministratore delegato di Arcelor Mittal Italia e la sua repentina sostituzione con la Lucia Morselli, affermata manager italiana, ha sollevato interrogativi in ambienti governativi, parlamentari, confindustriali, ma anche e soprattutto sindacali locali e nazionali.

Il primo incontro che la nuova amministratrice ha subito avuto a Taranto con i sindacati e la recente audizione in Commissione attività produttive della Camera – in cui ha accompagnato ancora Jehl – se sono stati una doverosa presa di contatto con sindacalisti della più grande fabbrica manifatturiera del Paese per numero di addetti diretti, e con i Parlamentari di una delle più autorevoli Commissioni di Montecitorio, dall’altro nei loro contenuti non sembra che abbiano risposto alle tante domande che molti si pongono. Atteniamoci pertanto ai fatti noti e riflettiamo.

L’amministratore delegato uscente aveva assunto la guida della società da poco più di un anno, e dal 1° novembre del 2018 con la stessa AM, quella dell’intero Gruppo – oggi ancora in locazione ma finalizzata all’acquisto – e in particolare del sito di Taranto in cui sono stati avviati un piano industriale ed un altro ambientale per un importo complessivo di 2,4 miliardi. Le previsioni produttive per l’anno in corso di 6 milioni di tonnellate consentite dall’Aia – a causa del cattivo andamento del mercato italiano ed europeo e delle ancora insufficienti barriere della Ue alle importazioni da Paesi extracomunitari – non sono state rispettate; ed anche a causa del tragico incidente avvenuto sul porto, del conseguente sequestro dello sporgente adibito allo scarico delle materie prime e delle recenti vicende giudiziarie dell’Altoforno n.2, entro la fine dell’anno non si prevede che superino i 4,5 milioni di tonnellate. Un primo doloroso ricorso alla cassa integrazione ordinaria per 1.395 unità è stato poi prorogato, anche se per un numero lievemente minore di unità e con un miglior accordo sindacale. A tutto ciò si aggiunga l’ormai interminabile querelle sugli “esimenti penali” per il periodo di attuazione del piano ambientale che sono stati rimodulati dal precedente governo, ma che il nuovo esecutivo deve ancora far approvare definitivamente dal Parlamento, convertendo in legge il decreto imprese: una vicenda quest’ultima in cui il nostro Paese, purtroppo, per responsabilità di alcuni decisori politici, non sta offendo una prova di affidabilità ad un grande investitore estero che aveva vinto la gara per l’aggiudicazione dell’Ilva in un altro contesto normativo.

Pertanto le perdite accumulate dalla società sono state pesantissime e si teme in azienda che tali permangano sino a fine anno. La situazione dunque è molto delicata e si sta facendo ogni giorno sempre più complessa a causa di un irriducibile radicalismo ambientalista, alimentato a certi livelli anche istituzionali, che crea crescente incertezza.

Allora, se sono stati trend di mercato e comportamenti soggettivi di stakeholder esterni alla fabbrica a determinare il quadro appena descritto, perché deve pagare Jehl? Ora, senza interferire in decisioni che competono alla società, qualche domanda tuttavia sorge spontanea: forse si imputa a chi è stato sostituito di non aver gestito con fermezza le relazioni industriali nello stabilimento? O di non avere rigidamente controllato le dinamiche dei costi, anche nei confronti dell’indotto, con cui pure sono avviate trattative per un loro contenimento? O, insieme a tutto ciò, gli si rimprovera di non aver gestito al meglio i rapporti con le istituzioni locali?

Comunque sia, ora alla guida della società viene chiamata Lucia Morselli, un’autentica lady di ferro (è il caso di dirlo) che ha già dato prova delle sue capacità manageriali alle Acciaierie di Terni – anche scontrandosi con estrema durezza per oltre 30 giorni con le maestranze che ne bloccarono la produzione – ma che era stata designata alla guida di Acciaitalia, l’altra cordata che aveva partecipato, perdendola, alla gara per l’aggiudicazione dell’Ilva, pur prevedendo in parte l’impiego di forni elettrici e di preridotto di ferro, avviando così la decarbonizzazione del sito di Taranto.

Significa allora qualcosa in tale direzione l’arrivo della nuova top manager? Sarebbe da escluderlo, avendo ArcelorMittal sottolineato più volte che si migliorerà l’ecosostenibilità dell’attuale ciclo produttivo nel sito ionico. O da parte della proprietà con la sua figura si persegue solo una conduzione molto più rigida delle relazioni sindacali? O invece, nominando una manager italiana ‘stimata’ in alcuni ambienti politici del Paese – che vorrebbero da tempo la dismissione dell’intero Siderurgico, o almeno della sua area a caldo ancora sotto sequestro sia pure con facoltà d’uso, e alla luce della sovracapacità impiantistica oggi esistente in Europa nelle acciaierie – si punterebbe in realtà a dismettere l’area a caldo di Taranto, declassandolo così a centro di laminazione i cui costi di esercizio, peraltro, senza quell’area, sarebbero insostenibili, salvo un ulteriore, drastico e ‘sanguinoso’ taglio occupazionale diretto e nelle attività indotte?

È questa insomma la mission affidata alla Morselli ritenuta la più idonea dai vertici di Arcelor, essendosi presentata loro con l’esperienza di sapore thatcheriano vissuta alle Acciaierie ternane? I sindacalisti, senza dirlo con chiarezza, in realtà temono che sia proprio questo il disegno della top manager.

Allora, se si andasse verso questo (tragico) epilogo, è bene che con i sindacati sia l’intero governo e tutto il Parlamento italiano, insieme anche ai Consigli regionali di Puglia, Liguria e Piemonte, ad esprimersi sul futuro della più grande fabbrica manifatturiera del Paese che al momento è ancora di proprietà pubblica, anche se in locazione a futuri acquirenti che (forse) potrebbero essere chiamati a rispondere anche di inadempienze contrattuali.

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