Ora anche il capo della Polizia Franco Gabrielli – pur dichiaratamente in disaccordo con la linea dell’ex ministro Salvini in materia – ammette pubblicamente che esiste un rapporto proporzionale tra immigrazione e criminalità. Nel suo recente intervento al Festival delle Città di Roma, infatti, egli ha sottolineato come un terzo di arrestati e denunciati in Italia sia straniero, a fronte di una percentuale del 12% di stranieri presenti nel Paese (tra regolari e irregolari). Quindi nel loro complesso gli stranieri residenti delinquono grosso modo tre volte più degli autoctoni (compresi i cittadini italiani di origine estera).
Si tratta di dati impressionanti in realtà già ampiamente noti a chiunque avesse occhi per informarsi, oltre che all’esperienza diretta di chiunque viva in una media o grande città italiana. Anzi, negli ultimi anni le analisi più accurate del fenomeno – come quella resa nota dall’Ufficio studi di Confcommercio nel dicembre 2016 e il dossier pubblicato dalla Fondazione Hume su dati Istat nel giugno 2018 – hanno già documentato inequivocabilmente non soltanto la netta sproporzione di reati commessi tra immigrati e nativi, ma anche il fatto che tra gli stranieri i clandestini infrangono la legge in proporzione da 30 a 40 volte più di quelli regolari.
Soltanto, insomma, chi è accecato da un pregiudizio ideologico o è in malafede può negare il fatto che attualmente in Italia la crescita dell’immigrazione corrisponde da molto tempo regolarmente un crescente deterioramento dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Evidentemente i flussi di stranieri in entrata, sempre più ingenti e disordinati, sono attualmente tali da determinare effetti molto più negativi che positivi.
Non si tratta di essere di sinistra o di destra, globalisti o sovranisti. Dati tanto netti impongono di confrontarsi pragmaticamente per affrontare con efficacia la questione, avendo chiaro i rischi ad essa connessi e gli obiettivi.
Se il fine generale è quello di mantenere una società coesa e ordinata c’è un solo modo per conseguirlo: applicare filtri quantitativi e qualitativi severi sugli ingressi. Il che vuol dire riuscire a selezionare gli immigrati ammessi sul territorio nazionale in base ai numeri massimi sostenibili per non destabilizzare una società; in base alle esigenze effettive di manodopera legalmente inseribile nel mercato del lavoro; in base, infine, alla compatibilità culturale, che non può essere un tabù, perché è strettamente connessa alla volontà da parte degli immigrati di integrarsi a pieno titolo nel Paese ospitante.
Si può discutere sugli strumenti concreti, così come sui rapporti tra legislazione/azione di governo nazionale e obblighi internazionali. Ma se non si concorda su questi punti di partenza mancano le basi minime per un dibattito efficace. Cercare ancora diversivi, fantasticando in astratto di “percorsi di integrazione” (come fa Gabrielli, che non riesce evidentemente a trarre le dovute conseguenze dai dati che egli stesso enuncia) o pensando che rendere la cittadinanza ancora più facile sia una soluzione, significa soltanto continuare a nascondere la testa sotto la sabbia.