Sui social network negli ultimi giorni sono circolate immagini piuttosto dure arrivate da Baghdad: si sentivano dei colpi di fucile e si vedevano i manifestanti scesi in strada finire a terra. Erano gli spari di un cecchino che squarciavano le proteste che dall’inizio della settimana hanno interessato la capitale altre otto province.
Le autorità sono intervenute col pugno duro e per il momento si contano 93 morti – di cui una cinquantina nelle ultime ventiquattro ore, da quando si è iniziato a sparare. I numeri non sono certi in mezzo al caos che ieri ha visto finire in fiamme la sede della Tv Al Arabiya e diversi uffici politici. L’esercito iracheno dice che non è stato identificato chi ha aperto il fuoco sulla folla, ci sono anche due agenti uccisi.
Il primo ministro, Adel Abdel Mahdi, in carica da più o meno un anno, ha imposto il coprifuoco: le richieste dei manifestanti “possono essere legittime”, ma la situazione nel paese è troppo a essere critica, ha spiegato. Ci sono molti attori in campo e il governo fatica a tenere il punto.
Per esempio c’è una componente mai decapitata dello Stato islamico, che ha perso la dimensione statuale, ma in Iraq più che mai resta una forza strisciante che sfrutta le disuguaglianze per creare proseliti.
Ci sono le disuguaglianze appunto: i giovani scendono in strada per lamentarsi delle condizioni di vita pessime, del futuro che non c’è.
Ci sono le forze eterodirette dall’Iran: partiti/milizia che hanno collegamenti strettissimi con i Pasdaran e che vengono usati per il gioco di influenze all’estero da Teheran, e che per questo chiedono in cambio potere in Iraq. Uno dei problemi di cui si lamentano i manifestanti è la presenza del vasto sistema di corpi armati, le milizie politiche collegate all’Iran: uno stato nello stato che ha ormai incrostato tutte le diramazioni istituzionali ed economiche. Un blocco difficile da scalfire.
Molti dei giovani in strada urlavano uno slogan: “Baghdad libera, fuori l’Iran!”, attaccano quste interferenze iraniane nella politica irachena, vogliono indipendenza e sovranità (come si direbbe declinando certi problemi con la lente comfortevole della semantica di moda). Incolpano le penetrazioni da Teheran della situazione del paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile è altissimo, i servizi pubblici non funzionano, la corruzione resta endemica.
Chi va in strada protesta contro il Paese in generale, “il sistema politico iracheno s’è rotto”, scrive Mina Al Oraibi in un’analisi su The National. I ragazzi che scendono in strada hanno conosciuto solo questo Iraq, corruzione e settarismo, disuguaglianze e sofferenze: dicono che non importa essere sunniti o sciiti, siamo tutti iracheni. Molti di loro hanno poco più di diciotto anni.
È questo forse lo spiraglio contro l’attecchimento delle istanze ideologiche radicali, che invece basano la loro forza propagandistica sulle divisioni e diversità. Molti di loro sono nati dopo Saddam o negli anni della liberazione, non l’hanno nemmeno conosciuto il regime di Hussein. Ce l’hanno con la debolezza dei governi che in questi anni si sono susseguiti basandosi su accordi politici precari, costruito con l’unico obiettivo la divisione degli interessi.
Gli scenari secondo Oraibi sono quattro: nuove elezioni, violenze, colpo di Stato, revisione totale del sistema.
La condizione dell’Iraq non è troppo cambiata da quando il governo Maliki aveva creato i presupposti socio-politici ed economici per permettere l’attecchimento della narrazione baghdadista. C’erano disparità e settarismo, c’era una contesto di vita impoverito da guerre e ricostruzioni deviate: quando nel gennaio del 2014 gli uomini dello Stato islamico sono entrati in massa a Falluja – mentre il mondo affrontava la situazione con disattenzione non cogliendo l’enormità della sfida che da lì a sei mesi si sarebbe trovato davanti: il Califfato – i sunniti si unirono alle forze di Abu Bakr al Baghdadi che prometteva tra le altre cose un’amministrazione più equa, un cambiamento rispetto al sistema che li stava governando.
E poco contava in quel momento iniziale che poi sarebbero andati incontro alla più rigida delle sharia, a un destino in cui quegli stessi giovani si sarebbero dovuti sacrificare, invasati dalla predicazione califfale. Un jihad contro i valori di un mondo che invece il loro malcontento vedeva, e vede adesso, come un traguardo: le libertà, i diritti, il lavoro, i profitti, quell’Occidente che con tutti i suoi difetti è ancora un termine di paragone.
Non ci sono “soluzioni magiche” ai problemi dell’Iraq, ha detto il premier Mahdi nel suo primo intervento pubblico dall’inizio delle proteste. E nel frattempo hanno preso posizioni i pezzi da novanta del mondo clericale: l’ayatollah al Sistani ha esortato il governo ad ascoltare la voce di chi scende in strada; Moqtada al Sadr ha sfruttato la situazione per rinvigorire l’opposizione e chiedere le dimissioni dell’esecutivo. I disordini sono scoppiati spontaneamente, non hanno leader, è un moto sentito, profondo.
L’Iraq ha la quarta più grande riserva di petrolio al mondo, ma già nel 2014 la Banca mondiale segnalava che il 22,5 per cento dei suoi 40 milioni di popolazione vive con meno di due dollari. Una famiglia su sei ha sperimentato una qualche forma di insicurezza alimentare; il tasso di disoccupazione è stato del 7,9 l’anno scorso, ma tra i giovani è doppio; quasi il 17 per cento della popolazione economicamente attiva è sottoccupata. L’inizio della stagione del Califfato, l’evoluzione statuale che ha fatto da protezione logistica per la propagazione del mondo attraverso attentati e gesti ispirati, è partito dall’Iraq, quando le condizioni di vita erano del tutto simile alle attuali.
Un Iraq nel caos crea una problematica di sicurezza enorme all’interno di un quadrante delicatissimo, dove da un lato le organizzazioni radicali come l’Is o al Qaeda aspettano il momento proficuo per crescere, e dall’altro l’Iran continua a essere un attore problematico con mire egemoniche.