Skip to main content

Kim lancia un missile sottomarino contro i negoziati con gli Usa

La Corea del Nord ha lanciato oggi quello che sembra essere un Slbm, ossia un missile balistico utilizzabile da un sottomarino. Se l’informazione sarà confermata dalle analisi ufficiali condotte dagli Stati Uniti, insieme a Corea del Sud e Giappone, significherebbe che Pyongyang ha raggiunto un ulteriore livello tecnologico nei propri armamenti. Da un paio di mesi, i media propagandistici nordcoreani hanno mostrato le immagini di un sottomarino e annunciato che il Nord sarebbe stato in grado di usarlo, ma finora non c’erano state prove concrete – nonostante diversi report costruiti su immagini satellitari open-source avessero dimostrato attività attorno a uno dei potenziali porti/sito di lancio di Sanpo. Fonti dal Pentagono hanno detto alla Cnn che il missile in realtà è stato lanciato da una piattaforma, non da un sommergibile.

La componente sottomarina missilistica è un aspetto molto importante, perché garantirebbe alla Corea del Nord di avere quella che in gergo tecnico viene definita potenzialità di “second strike“, ossia se le sue strutture dovessero essere colpite da un attacco nucleare, Pyongyang avrebbe la possibilità di rispondere di non restare a terra col naso sanguinante – la teoria del “Bloody Nose” è una tecnica d’azione preemptive traslata dal pugilato e pensata dall’amministrazione Trump due anni fa, quando con il Nord il clima era molto diverso da quello vissuto nell’ultimo periodo e consisteva nel colpire in anticipo tutti gli obiettivi strategico-militari per mettere l’avversario al tappeto col naso gocciolante, ossia renderlo incapace di reagire: ora, se il Nord ha anche la possibilità di lanciare un attacco atomico da un sottomarino, il quadro cambia.

Il missile sparato oggi dovrebbe essere, secondo le prime informazioni diffuse da Seul, un Pukkuksong, che ha viaggiato per circa 450 chilometri atterrando nelle acque che rappresentano la zona economica esclusiva del Giappone. Non era mai successo dal novembre 2017 – periodo in cui Washington e gli alleati pensavano a un confronto militaresco con il Nord, poi scemato in un contatto diplomatico avviato da Seul in occasione delle Olimpiadi invernali di Pyeongchang, a febbraio 2018.

Il vettore ha viaggiato per 910 chilometri in altezza (picco massimo della parabola balistica, che è estremizzata per accorciare le distanze quando i missili vengono testati); per confronto, la Stazione spaziale internazionale orbita attorno ai 450 chilometri. Questo odierno è il nono lancio da luglio, ossia da quando il presidente statunitense, Donald Trump, ha stretto la mano al satrapo nordcoreano, Kim Jong-un, lungo la zona demilitarizzata che divide le due Coree. Era il terzo dei loro incontri, dopo Singapore e Hanoi. Una serie di contatti seguiti da svariati vertici di livello più basso. Meeting di questo genere dovrebbero ripartire la prossima settimana, dopo uno stallo che ha reso Pyongyang piuttosto nervosa e che ha prodotto la serie di lanci-monito.

Finora Trump ha derubricato le attività di Kim come faccende minori, dicendo che nel gentlemen agreement raggiunto durante il loro primo vertice non si era mai fatto cenno a missili di media gittata come quelli lanciati negli ultimi tre mesi. È chiaro che sia una protezione politico-diplomatica con cui il presidente americano innanzitutto salva la faccia davanti agli elettori (ai quali sta promettendo da tre anni un qualche accordo con un grande nemico dell’America) e poi per mantenere in piedi il contatto.

Anche quello di oggi tecnicamente non rientra negli Icbm, ossia i missili a gittata intercontinentale che Kim ha promesso a Trump di non sparare più, ma Tokyo, alleato ferreo statunitense e parte in causa la cui sovranità è stata parzialmente sfregiata dal lancio, ne ha denunciato la violazione secondo una risoluzione Onu – è una posizione simile a quella presa un mese e mezzo fa dall’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Bolton, che ha pagato anche l’approccio più da falco nei riguardi di questo e altri dossier rispetto alla presidenza, e per questo è stato fatto fuori dalla Casa Bianca.

Washington e Pyongyang parlano della denuclearizzazione, ma usano termini diversi che rendono la comunicazione difficile. Gli americani vorrebbero un completo smantellamento dell’apparato nucleare del Nord, i nordcoreani pensano a qualcosa di diverso, e con questo genere di test intendono far capire che al tavolo hanno una deterrenza da giocare. E la rendono visibile.

Kim vuole il sollevamento delle sanzioni che strozzano l’economia del suo paese, e su questo ha scommesso per i contatti – davanti agli oltranzisti interni al regime – sperando di arrivare a inquadrare la Corea del Nord in qualcosa di simile a un sistema di controllo degli armamenti. Tema che, implicitamente, significherebbe riconoscere Pyongyang la potenza nucleare: qui il desiderio di accordo di Trump sbatte contro la realtà e i paletti fissati dagli apparati Usa, che per ora non vogliono permettersi di essere così deboli con Kim.

×

Iscriviti alla newsletter