Diciotto persone, ma forse di più, sono state uccise ieri a Kerbala, una città del sud iracheno, mentre manifestavano contro il governo e contro chi ne influenza le dinamiche: l’Iran. I fatti di Kerbala sono molto importanti in queste settimane di proteste irachene, perché la città è considerata sacra dagli sciiti, ossia dalla dimensione islamica che trova la propria dimensione geografico-ideologica nella Repubblica iraniana fondata dalla rivoluzione khomeinista.
Quelle vittime di ieri si sommano alle oltre settanta morte durante le proteste del weekend e quelle dei giorni precedenti. Molte di queste sono rimaste uccise da colpi di arma da fuoco. I media internazionali raccolgono testimonianze che parlano di uomini in passamontagna, appostati sulle finestre più alte degli edifici. Cecchini? Non è chiaro, perché tutti si sono discolpati per quanto accaduto: per primo il governo iracheno chiaramente.
Ma qualche giorno fa, la Reuters aveva uno scoop eclatante. A sparare sarebbero uomini delle milizie filo-iraniane che attanagliano il paese. Si tratta di quell’insieme di entità politiche e paramilitari che ha forza in parlamento per decidere le sorti del governo e nel sistema per creare strutture parallele. Quasi tutte sono letteralmente finanziate dall’Iran, in poche lo ammettono.
Una di queste è la Saraya al Khorasani, che secondo quanto scritto da Al Monitor – sito americano con grosse penetrazioni informative in Medio Oriente – avrebbe mandato i suoi miliziani sui tetti di Baghdad. Sparavano da esperti: colpi al petto e alla testa. Nei primi giorni di protesta, a inizio mese, hanno fatto una cinquantina di vittime. La gente nei giorni scorsi è scesa in strada urlando “dove sono i cecchini”. Slogan da aggiungere a quelli anti-Iran, che fin dall’inizio caratterizzano le dimostrazioni. Negli ultimi giorni molti portavano cartelli contro la Guida suprema Ali Khamenei.
Non ci sono informazioni definitiva, certamente, ma secondo alcune ricostruzioni pare che la risposta repressiva alle proteste sia gestita totalmente da Teheran. L’Iran ha una grossa influenza sulla stabilità irachena, ha una penetrazione profonda nel tessuto politico ed economico, finora anche in quello sociale. Ma attualmente pare che qualcosa stia cambiando. Le manifestazioni sono guidate dai giovani iracheni – una componente demografica potentissima, che rappresenta oltre la metà della popolazione. Sono loro che soffrono un’insoddisfazione che potremmo semplificare in un moto anti-establishment e contro la riduzione delle sovranità.
I partiti/milizia che guidano l’Iraq hanno leader che vivono tra gli allori. Si riuniscono in sedi di lusso dove si fanno fotografare sprezzanti della generale povertà dei concittadini. Hanno pensato che con la questione religiosa potessero obliterare i malumori, aiutandosi con la costruzione di un nemico da combattere. L’Occidente come il Califfato. Hanno creato le Forze di mobilitazione popolare, il raggruppamento di milizie sciite filo-iraniano che s’è dato un nome valido per il marketing. Hanno combattuto lo Stato islamico, sembravano i liberatori del paese, ma hanno dimostrato di essere con i sunniti iracheni alla stregua dei baghdadisti. Aspetti che le rivolte attuali dimostrano non sottovalutabili.
Inoltre la guerra all’Is è sostanzialmente finita, ma le Forze si sono fatte integrare – sotto pressioni da Teheran – nel sistema di difesa e sicurezza del paese. Da lì hanno ancora più potere. E il giovane iracheno medio che non vuole arruolarsi, quello che vede il suo futuro limitato già a vent’anni, cova il rancore che in questi giorni vediamo per strada. Alcuni dei manifestanti portano con loro cartelloni col volto di Qassem Souleimani, il generale/politico del reparto d’élite dei Pasdaran, le Quds Force.
Venerato dai fanatici come una sorta di super-eroe, è lui l’uomo che ha pianificato e gestito la proliferazione della galassia di milizie con cui Teheran sta cercando di egemonizzare il Medio Oriente, e che ora in Iraq come in Libano diventano un problema per la tenuta sociale. Molto di questo malcontento è sofferto anche dai giovani iraniani, che chiedono ai loro governanti di mollare le ambizioni di potenza e lavorare all’interno del paese per permettere di migliorare le condizioni di vita.