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Ecco come funziona il (non) ritiro americano dalla Siria

Il segretario alla Difesa statunitense, Mark Esper, ieri ha tracciato completamente il quadro del riassetto americano nel quadrante siriano del Medio Oriente. Ha spiegato, come previsto, che andranno in Iraq i soldati spostati dalle aree curde del nord del Paese — e quindi quei territori che gli Usa hanno liberato dallo Stato islamico insieme alle milizie curdo-arabe ora resteranno in mano all’avanzata turca, che vuol compiere un’operazione di ingegneria etnica ai danni dei curdi, e di russi e regime, che invece stanno cercando di inserirsi negli spazi lasciati dagli americani. 

Ieri, mentre i mezzi corazzati utilizzati dalla truppe statunitensi uscivano da quelle zone siriane, i curdi li accompagnavano lanciando sassi e frutta marcia. Lo stesso hanno fatto alcune persone mentre quegli stessi convogli entravano a Erbil, nel Kurdistan iracheno, un territorio che nel corso della storia irachena è stato più volte il cuore della distribuzione logistica degli Stati Uniti e dove i soldati con la bandiera a Stelle e Strisce finora erano considerati eroi. Ora gli gridano “traditori”. 

È un segno forte nella storia statunitense, soprattutto se abbinato al nuovo posizionamento delle truppe. Perché oltre a quelle ridistribuite appena oltre confine iracheno, per continuare più da remoto la lotta alle spurie dello Stato islamico, altre effettivamente resteranno in Siria, ha annunciato il capo del Pentagono. Si tratta di duecento uomini, che sembrano frutto di una negoziazione tra il presidente Donald Trump e il resto degli apparati di difesa e sicurezza statunitensi: il primo annuncia da dicembre un ritiro immediato, gli altri insistono che per adesso non è proprio il caso di lasciare per tante ragioni.

Quei duecento operatori delle forze speciali, però verranno distribuiti in una zona ben più a sud, nella fascia in cui la Siria confina con l’Anbar iracheno, e che è caratterizzata da due aspetti: primo, è ancora occupata dalle spurie clandestine dello Stato islamico; secondo è una zona petrolifera. “Abbiamo messo al sicuro il petrolio”, ha detto Trump pubblicamente dando un’ottima ragione di insistere a chi sostiene che la politica estera americana sia interessata solo alle risorse; la vulgata dice: i curdi in Iraq e Siria urlano traditori, perché gli americani sono sfruttatori interessati solo ai dollari del greggio.

In realtà quel posizionamento ha un senso notevolmente più profondo, anche perché le riserve americane di petrolio in questo momento sono sesquipedali rispetto a quei campi siriani. Però se gli americani si garantiscono il controllo di quei campi, allora hanno un elemento negoziale con regime e russi – che, soprattutto i primi, hanno interesse reale su quelle seppur limitate risorse. È un posizionamento tattico che ha un grosso valore politico, una sorta di forma di protezione per i curdi che si trovano in quelle aree, liberate anche queste dall’occupazione militarista dello Stato islamico, e un contenimento degli interessi soprattutto di una potenza dietro al regime: l’Iran.

Esper ha anche spiegato che la presenza americana nella regione mediorientale sostanzialmente non cambia: c’è questo riassetto che interessa la Siria, ma Washington non intende affatto disinteressarsi dalle evoluzioni geopolitiche dell’area. Tant’è che se si fa un conto complessivo, la presenza Usa è notevolmente aumentata con Trump, e il presidente ha usato il ritiro dalla Siria a fini elettorali (mettiamo fine a queste “guerre infinite”) tanto quanto l’invio di migliaia di soldati in Arabia Saudita (loro “ci pagano”, perché comprano armi americano e investono negli Usa), altrettanto vale per la postura anti-Iran.

(Foto:  U.S. Army photo by Daniel Torok)



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