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Che fine ha fatto la Task Force Cina del Mise?

Mentre secondo un sondaggio pubblicato dalla cinese Xinhua l’Italia risulta la terza nazione con “la più alta consapevolezza dell’iniziativa” Belt & Road — la Bri, la Nuova Via della Seta, a cui il governo Conte-1 ha aderito con tanto di firma su un protocollo politico comune — a Roma si parla di Cina diversamente. Che fine ha fatto la Task Force del Mise?

Lo scorso anno, prima della mossa sulla Bri, il ministero dello Sviluppo economico (Mise) su iniziativa dell’allora sottosegretario leghista Michele Geraci, aveva creato la cosiddetta Task Force Cina. Doveva essere un gruppo di lavoro in cui esperti di vario genere — derivanti dal mondo istituzionale, ma soprattutto da quello extra-istituzionale (università, centri di ricerca, business) — avrebbero tirato fuori idee innovative e condivise su cui basare le policy generali che il governo avrebbe dovuto usare per relazionarsi con Pechino.

Almeno secondo il pensiero de “il cinese”, così Geraci viene scherzosamente chiamato tra i corridoi di palazzo per la sua forte esposizione alla Cina, dove ha lavorato e vissuto per anni, e direzione verso cui ha portato il governo italiano lavorando in prima linea per la firma del memorandum sulla Bri. Qui val la pena ricordare che l’Italia è l’unico grande Paese occidentale ad aver aderito formalmente all’infrastruttura geopolitica con cui Pechino intende collegarsi all’Europa. Dentro a questo progetto di Xi Jinping — che rientra tra i macropiani con cui spingere l’economia, ma soprattutto allargare l’influenza cinese verso l’Europa — non ci sono altri Paesi del G7, ma attenzione: questo non vuol dire che gli altri occidentali non abbiano rapporti con la Cina.

Anzi, se l’adesione italiana — molto criticata da Washington e Bruxelles — ha permesso a Pechino una pubblicità geopolitica consistente portando finora pochi dividendi per Roma, nei giorni stessi della firma, appena ripartito dall’Italia Xi è atterrato a Parigi, dove ha trovato un Eliseo piuttosto critico su alcuni aspetti della Bri (essenzialmente lo scambio economia/influenza politica), situazione che però non ha impedito a Parigi di chiudere un accordo per Airbus sostanzialmente più buono di tutti quelli messi assieme dagli italiani dopo l’adesione.

La Task Force Cina del Mise doveva servire a lavorare in circostanze del genere: sviluppare un pensiero complesso e articolato su vari aspetti, un dibattito che potesse fare da meccanismo di protezione e azione con il Dragone, che non avrebbe abbrutito il tutto in un ‘firmiamo sulla Bri così facciamo più affari coi cinesi’.

A distanza di circa due anni dalla creazione si può dire con tranquillità che è stato un esperimento fallito. Riunitosi solo due volte, una prima e una dopo l’adesione alla Bri, quel folto insieme di esperti esterni di cui il ministero intendeva usare conoscenze e argomentazioni — “pro bono”, sottolineava sempre Geraci, ricordando che doveva essere “un servizio” letteralmente offerto al Paese — non è mai stato nemmeno ufficialmente avvisato della scelta del governo di unirsi in modo formale al piano cinese. Come poteva lavorare?

Adesso nelle mail-chat dei vari gruppi (teoricamente)operativi interni c’è perplessità. Dopo mesi di silenzio in cui i membri della Task Force hanno fatto passare il giusto tempo per completare il riassestamento interno ai ministeri, conseguenza del nuovo governo, ci si comincia a chiedere cosa ne sarà di quel gruppo di lavoro fantomatico nei fatti, formidabile nel pensiero di Geraci. Qualcuno chiede “Che stiamo facendo?”, qualcun altro valuta la possibilità che sia già tutto decaduto con Geraci (che è fuori dal governo, e messo ai lati anche dal suo partito), altri auspicano una qualche scossa che ravvivi l’iniziativa.

Dal Mise è partito Luigi Di Maio, il leader del M5S che salutava con orgoglio la creazione dell’unità di pensiero sulla Cina, ma che adesso — ormai assiduo a Washington — cerca il modo per distaccarsi un po’ dalla targa cinese che l’operazione Bri, partita da Geraci e dagli uffici di Via Veneto, gli ha messo sulle spalle. In parte: perché l’ex ministro dello Sviluppo economico tra poche settimane accompagnerà il suo sostituto, Stefano Patuanelli, sempre grillino, e  sarà di nuovo in Cina, a Shanghai. 

Di Maio s’è mosso alla Farnesina e si è portato dietro (sebbene con tempi non immediati) il commercio con l’Estero, che è il cuore del sistema di mercato di uno Stato e le cui politiche toccano da vicinissimo le relazioni con la Cina. La Task Force cambierà sede dunque? Oppure ce ne dimenticheremo come una delle buone iniziative nelle volontà, ma dai pessimi risultati negli atti, marchio tipico del made in Italy politico? L’ex ambasciatore a Pechino, Ettore Sequi, che era rientrato a Roma solo per essere presente per il saluto istituzionale alla seduta inaugurale del gruppo di lavoro al Mise, adesso dirige le attività del ministro degli Esteri: potrebbe essere un buon elemento per intestarsi la guida e ravvivare la Task Force?

Nessuno del governo per ora risponde a queste perplessità. E dire che ce ne sarebbe bisogno, adesso più che mai, di elaborare un pensiero proattivo sulla Cina, perché Pechino pressa sui terreni di cooperazione che l’adesione italiana ha aperto. Per esempio, ieri all’Ambasciata cinese di Roma c’è stato un convegno sulla collaborazione spaziale tra Italia e Cina, uno degli elementi più delicati dietro alla firma italiana sulla Bri. Rappresentanti delle istituzioni italiane erano lì, a parlare del tema dello spazio — dove la cooperazione con Pechino sarebbe certamente controversa — nello stesso luogo in cui un paio di mesi fa l’ambasciatore cinese in Italia ha inaugurato il suo nuovo incarico lanciando l’iniziativa governativa con cui la Cina ha usato le sue feluche per diffondere informazioni alterate sulla crisi di Hong Kong, tramite conferenze stampa durante le quali accusava la Cia di essere dietro alle proteste. Tanto per capirci sul perché con i cinesi occorre realmente agire in piena “consapevolezza”.



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