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Il trafficante, l’Italia e la politica migratoria. Quale postura in Libia?

Nella straordinaria e drammatica complessità del fenomeno migratorio connesso alla situazione libica (solo nelle ultime ore: un naufragio vicino a Lampedusa, con una trentina di morti e dispersi e 22 salvati, e il bombardamento del Club equestre di Tripoli da parte di Khalifa Haftar con alcuni bambini feriti), l’inchiesta di Avvenire sulla presenza di un trafficante di esseri umani nel maggio 2017 in un incontro al Cara di Mineo e in un’altra occasione nella sede della Guardia costiera italiana riapre la spinosa questione politica, prima ancora che investigativa, sul tipo di rapporti da intrattenere con la Libia nelle sue molteplici e spesso opache articolazioni.

Gli articoli del quotidiano della Cei e una sintetica ricostruzione del personaggio fatta da Matteo Villa dell’Ispi su Twitter non lasciano dubbi sul fatto che Abd al Rahman al Milad, noto come Bija, fosse conosciuto come un crudele trafficante di esseri umani già prima di quegli appuntamenti in Italia ai quali partecipò come membro di una folta delegazione della Guardia costiera libica. Un particolare non secondario è che l’incontro nella sede della Guardia costiera a Roma faceva parte del progetto Sea Demm (Sea and Desert Migration Management for Lybian authorities to rescue migrants) coordinato dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni che è un’agenzia dell’Onu. Bija era il boss nell’area di Zawyha, gestiva le partenze dei migranti, il loro recupero in mare da parte di membri spesso corrotti della Guardia costiera libica e alcuni campi dove i migranti venivano tenuti in condizioni inumane.

Anche se, a quanto pare, Bija sarebbe stato successivamente sospeso dal servizio e non farebbe più parte della Guardia costiera libica, le sue attività continuerebbero tuttora. E quindi le domande che l’inchiesta pone sono ovvie: com’è stato possibile che un criminale sia stato considerato un onesto libico desideroso di aiutare il proprio Paese e che né l’Onu né le autorità italiane ne abbiano impedito l’ingresso o non l’abbiano fatto arrestare? Senza sposare interpretazioni secondo cui l’Italia aveva interesse a fare di tutt’erba un fascio concludendo affari perfino con un crudele criminale pur di frenare gli sbarchi, interpretazioni che vanno provate in dettaglio per evitare conseguenze giudiziarie, vale la pena ricordare alcuni passaggi politici e posizioni ideologiche: c’è chi persegue una linea di totale apertura e chi cerca di limitare i danni derivanti da un numero di immigrati troppo alto soprattutto in assenza di concrete politiche di integrazione che, per avere successo, dovrebbero però riscontrare la volontà di integrarsi da parte degli stranieri.

Nel maggio 2017 il ministro dell’Interno era Marco Minniti che fin dal giorno del suo insediamento, in una riunione ristretta al Viminale, disse con chiarezza che sul fronte dell’immigrazione sarebbe cambiata la musica. Fu intensificata la collaborazione con Tripoli con la consegna di motovedette e avviato l’addestramento degli equipaggi curato dalla missione europea Eunavfor Med-Sophia. La situazione era tale che il 29 giugno 2017 in 36 ore arrivarono 12.500 migranti su 25 navi diverse e tempo dopo Minniti disse di aver temuto per la tenuta democratica dell’Italia. Fu dunque accelerata l’intesa con i sindaci di diverse città libiche. Tutto questo non è mai piaciuto a una parte del Pd e alla sinistra più estrema: Matteo Orfini, all’epoca presidente del Partito democratico, non ha mai nascosto l’idea di una nuova missione Mare Nostrum di salvataggio in mare e che, dopo l’inchiesta di Avvenire, ha accusato i Servizi italiani di trattare con i trafficanti. Orfini considera sbagliate le politiche sulla Libia e l’immigrazione dei governi pd e la sua posizione è stata sposata, in modo abbastanza clamoroso, da Matteo Renzi, come già scritto su Formiche.net. Sulla stessa linea il mondo cattolico e quindi non deve sorprendere la linea di Avvenire né quella di un importante esponente della Comunità di Sant’Egidio come Mario Giro che all’epoca era vice ministro agli Esteri e che denunciava i lager libici. Nello stesso tempo, si deve riconoscere che con la politica di Minniti l’Unhcr e l’Oim hanno messo piede per la prima volta in Libia.

E allora? A due anni e mezzo da quelle foto che dimostrano la presenza di Bija in Italia le reazioni si limitano a richieste di commissioni d’inchiesta, che lasciano il tempo che trovano, da parte di Matteo Orfini, Nicola Fratoianni (Leu) e Francesco Verducci (Pd) mentre l’Arci chiede conto a Minniti. Ciò non significa che ci sia indifferenza: significa che probabilmente all’epoca qualcuno si è turato il naso nell’accettare che anche un crudele trafficante facesse parte della delegazione e che la Libia non è un Paese normale con qualche problema provvisorio, bensì un insieme di bande, tribù, criminali più un paio di governi (uno riconosciuto dall’Onu, l’altro un po’ meno) e tutti insieme rappresentano una bomba vicina alle nostre coste. Il governo Conte I non ha brillato per ruolo diplomatico anche per diverse posizioni in tema di politica estera e sul fronte libico, a parte le formali parole degli Stati Uniti, non ha concluso nulla. Il Conte II, oggi alle prese con problemi politici di vario tipo interni ed esteri, continua a sperare in Bruxelles per dare sostanza alla bozza di accordo di Malta. Ma se l’Unione europea, gli Stati Uniti e la Russia non troveranno la quadra sul fronte libico, i tanti Bija continueranno a prosperare.

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