Oggi Xi Jinping ha mostrato al mondo il suo lato muscolare. Il presidente cinese avrebbe potuto organizzare la cerimonia per il 70esimo della Repubblica popolare cinese in tanti modi, ma ha scelto di farlo con una maxi parata militare. Non sfugge una giustapposizione col fondatore Mao Zedong, anche nell’immagine estetica che Xi ha voluto dare di sé nella scelta dell’abbigliamento (l’unico in giacca maoista, gli altri gerarchi del regime tutti in abito nero internazionale).
In un Paese in cui il simbolismo è sostanza assoluta, la sfilata di mezzi militari rappresenta contemporaneamente l’affermazione tecnologica e la deterrenza. Il missile ipersonico a planata DF-17 è una tecnologia che nessuno ha ancora raggiunto, così come quello balistico DF-41, in grado di raggiungere gli Stati Uniti in meno di un’ora e sganciare contemporaneamente dieci testate nucleare su dieci obiettivi diversi.
E la sfilata di Piazza Tienanmen – servisse di cercare una location simbolica, eccola – dà allo stesso tempo anche il senso del perché Xi si trova ad affrontare il complicato confronto con gli Stati Uniti (postilla specifica sui missili: il DF-17 o il DF-41, così come svariati altri a media gittata, rappresentano plasticamente il motivo per cui Washington ha deciso di uscire dall’Inf, il trattato nucleare di era sovietica, al di là delle violazioni russe: alcuni tra l’altro sono sviluppati da una partnership militare Cina-Russia, e gli Usa non possono restare indietro, fermi nel rispetto degli accordi costruiti in un altro mondo, quello in cui il Dragone ancora non era un attore globale).
Non esiste una deterrenza senza una dimostrazione pubblica di forza, e questo è stata la parata conduci Xi ha voluto celebrare la Cina attuale e del futuro. Altra sottolineature fondamentale: i cinesi non mostrano mai le armi se non sono perfettamente funzionanti e operative, e tutto ciò significa che Pechino fa sapere di aver raggiunto la potenza tecnologica in grado di usare operatori come i droni sottomarini o il nuovissimo velivolo senza pilota Sharp Sword, mezzi che hanno bisogno di intelligenza artificiale e sistemi di gestione dati potentissimi, la cui applicazione dal campo militare può facilmente slittare su quello civile.
È nella tecnologia che si muove la competizione del futuro, e questo Xi affida agli occhi del mondo oggi. Ma contemporaneamente chi osserva la Cina, l’Oriente, sempre oggi vede anche Hong Kong bruciare, davanti a un’escalation di proteste sempre più violenta, con i poliziotti cinesi che hanno sparato il primo (cruciale?) colpo contro i manifestanti, rovinano in parte la celebrazione. Da Shenzen, polo industriale davanti al Porto Profumato, città che rappresenta il simbolo dello sviluppo tecnologico verso l’indipendenza del made in China 2025, la Cina ha fatto uscire le truppe che hanno rafforzato la guarnigione hongkonghese senza troppi clamori (con lo stesso silenzio con cui i missili visti in parata sono stati testati), perché la sfida alle periferie è l’argomento del presente.
Nessuna potenza può rappresentare una reale deterrenza in giro per il mondo se non è in grado di gestire i problemi interni, le frammentazioni in più Cine, Hong Kong come Taiwan o Macao. Hong Kong, terza borsa al mondo, è qualcosa che Pechino non può farsi sfuggire per il peso che ha nel sistema finanziario internazionale, per il ruolo che deve avere nello sviluppo del progetto la Greater Bay Area (Silicon Valley cinese) per il simbolo che rappresenta nel concetto di riunificazione della Cina su cui Xi insiste da tempo.
“L’unità è ferro e acciaio, l’unità è forza”, ha detto Xi ricordando che avrebbe garantito gli sforzi per mantenere la stabilità di lungo termine di Hong Kong e Macao e le relazioni “nello stretto”, ossia con Taiwan, che viene considerata una provincia ribelle da riunire alla Cina Mainland. Come conciliare certe visioni con le richieste pro-democrazia da parte dei giovani dell’ex colonia britannica?
“Non esiste alcun potere che possa fermare gli sforzi verso la riunificazione e il progresso del popolo cinese”, dice Xi. È un messaggio chiaro, secco, che dà seguito a quella deterrenza anche armata rendendola applicabile – la repressione a Hong Kong, la riconquista di Taiwan con la forza. Ma pone anche il presidente cinese che lo scorso anno ha ricevuto l’investitura a vita davanti a una sfida enorme. Le celebrazioni rispecchiano molto la figura di Xi, che ha voluto usare l’evento per manifestare ai suoi cittadini quanto lui crede nel suo popolo e soprattutto nel Partito, come guida del popolo stesso.
Partito che Xi, secondo un approccio leninista, ha deciso di tenere completamene sotto controllo anche per ragioni di (in)sicurezza, per la necessità di stabilizzare il suo potere come marchio sul futuro, come quello lasciato dalle modifiche costituzionali. Ma il rischio di aver messo a tacere il dibattito interno nel partito è quello di aver eroso la capacità analitica del sistema che gestisce il Paese, in un momento in cui il confronto tra potenze con gli Usa/Occidente, la guerra commerciale (che non arriva solo da Washington), l’economia che non corre più come qualche anno fa, le sfide dal valore ideologico per la libertà delle periferie, l’integrazione tra città e aree rurali, bubboni emergenziali come la peste suina. Scrive il corrispondente del CorSera a Pechino, Guido Santevecchi, in questi giorni a Hong Kong, che Xi ha in testa una corona, ma con “è piena di spine”.